Dopo sospensioni unilaterali del trattato di Schengen e i divieti alle esportazioni di materiale medico, in questi giorni sta cadendo un altro dei pilastri dell’Unione Europea e cioè quello degli aiuti di Stato. I tedeschi hanno messo sul piatto 550 miliardi di euro e i francesi ieri hanno aperto alla possibilità di statalizzare le aziende che verranno investite dalla recessione con cifre non del tutto dissimili. La Spagna ieri ha annunciato 100 miliardi di garanzie statali e liquidità illimitata per le aziende. Noi finora abbiamo forse i voucher per le babysitter. Siamo oltre il grottesco.



Il problema per l’Italia diventa evidente e non si tratta più del trito e ritrito dibattito tra “sovranisti” ed “europeisti”. Il problema della permanenza nell’euro dell’Italia era strutturale ancora prima della crisi del 2008 e diventa più pressante a ogni crisi, specialmente se sistemica e profonda come quella che causerà il coronavirus. L’Italia per stare nell’euro, una valuta forte, avrebbe dovuto profondamente riformare lo Stato, la burocrazia e l’amministrazione della giustizia e colpire una rendita che grava in modo pesantissimo sulle spalle delle aziende e dei giovani senza lavoro. Questo non è avvenuto e quindi il problema oggi esplode in tutta la sua gravità. Giusto per evitare equivoci, l’eventuale ritorno alla lira o a nuove valute non ci farebbe magicamente tornare agli anni 80 e nemmeno agli anni 60. A quel punto la ristrutturazione della burocrazia e della spesa sociale sarebbe ancora più impellente pena la sudamericanizzazione del Paese.



Oggi però la questione dell’euro e dell’Italia si sta esplicitando in tutta la sua profondità. Un’impresa lombarda o marchigiana o campana o pugliese non potrà in nessun modo ripresentarsi al via della ripresa, rigiocandosi clienti e quote di mercato, se sarà messa nelle condizioni di misurarsi con aziende salvate dagli Stati, con aliquote fiscali molto inferiori, perché gli Stati di appartenenza faranno molto più deficit, con la stessa valuta e nello stesso mercato comune senza dazi. Su questo livello della questione non crediamo ci possano essere divisioni “ideologiche” di alcun tipo.



Certo l’Italia può e dovrebbe fare scelte dolorose sulla spesa sociale. Non è possibile pensare che, come nel 2009 e nel 2012, intere categorie passino indenni questa crisi gravissima e vedano aumentare il carico di tasse su tutto il resto che produce. Vogliamo essere espliciti e brutali. Intere categorie, per esempio quella dei dipendenti pubblici, non solo sono uscite completamente indenni da due crisi bestiali ma sono state premiate, in relativo, rispetto a tutti gli altri. In un mondo dove la disoccupazione privata esplode e i prezzi scendono, mantenere un salario certo più dell’oro e invariato significa un trasferimento di ricchezza da pubblico a privato e significa caricare il privato, le imprese, di un peso doppio oltre a quello della recessione. Il peso delle tasse. Oltretutto si distrugge la spesa “buona” per infrastrutture come testimonia la devastazione occorsa negli ultimi 5 anni tra le principali società di costruzioni italiane cha hanno visto letteralmente sparire il mercato nazionale.

Oggi ci sono moltissime imprese italiane quotate e non, con posizioni competitive di livello globale, che rischiano di saltare per una competizione che diventa impossibile o che rischiano di essere comprate a fine crisi per due noccioline dalle aziende europee salvate a forza di deficit pubblici fuori scala dai rispettivi Paesi. Ci colpisce in particolare la flessibilità ottenuta dalla Francia, che nelle ultime due decadi non ha mostrato affatto attitudini migliori di quelle italiane in termini di deficit/Pil, né di riforme “strutturali”. Il Governo italiano oggi può e deve chiedere perché la situazione è bruttissima per tutti, come testimonia il credit default swap di Deutsche Bank ai massimi degli ultimi 5 anni. Chi non fa deficit per le cose giuste, morirà e farà morire per sempre tantissime imprese e tantissime banche. Questo, ripetiamo, è il momento di osare e chiedere non spesa sociale senza senso, ma la possibilità di salvare le proprie imprese.

Ci viene fortissimo il dubbio che non si sia capito o non si voglia capire, per un calcolo politico, che il momento è ora e non tra due mesi, quando i giochi saranno fatti perché nel frattempo qualcuno vuole uscire intestandosi il successo della gestione della pandemia e cedere lo scettro di fronte allo scempio economico. A quel punto nel disastro generale chiamare Draghi, per non fare cognomi, sarà troppo tardi e il treno sarà perso.

Un’ultima chiosa. L’Italia non ha deciso e non deciderà da sola di uscire dall’euro. Ma può farsi avanti con gli alleati, se ancora ne ha e in particolare uno, con delle proposte serie. Proposte che non possono non contemplare sacrifici veri. La priorità però è una sola: le imprese che danno lavoro e dalle cui tasse escono soldi per sanità e respiratori. L’ultimissima questione. Come può dire l’Europa di aiutare l’Italia se in questa fase lascia che il rendimento del Btp continui a salire?

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