È inevitabile – ed è anzi forse un bene – che nel discorso pubblico attorno all’emergenza coronavirus si facciano strada per tempo riflessioni e proposte sulla “ricostruzione” economica che si renderà necessaria in Italia dopo una disruption paragonabile a quella prodotta da una guerra (il Sussidiario ha non scorrettamente sovrapposto i confini delle nuove zone rosse alla mappa dell’Italia divisa dalla Linea Gotica nel 1944-45).
Ferruccio de Bortoli, sull’Economia del Corriere in edicola oggi, lancia un’idea classica: quella di un “prestito nazionale”, secondo uno schema consolidato non solo in Italia, tipicamente in scenari di war economy. Non è una novità neppure nella narrativa recente dei grandi media italiani. Proprio il Corriere diretto da de Bortoli, nel novembre 2011 sostenne con forza una sottoscrizione “patriottica” di Btp nel pieno della crisi dello spread: quando il Quirinale aveva chiamato al timone di un Governo di salute pubblica Mario Monti, storico editorialista del quotidiano milanese (negli stessi giorni Mario Draghi s’insediava come presidente della Bce).
Già in quell’occasione, per la verità, l’appello non mancò di far alzare qualche sopracciglio. I prestiti di guerra – o addirittura i doni forzosi di “oro alla patria” come quello deciso dall’Italia fascista e autarchica – prendono forma letterale in contesti politico-economici chiusi, “sovranisti”, spesso in conflitto aperto con altri “sovranismi”: possa essersi trattato degli stessi Stati Uniti democratici impegnati nella liberazione dell’Europa nazifascista. Non ha potuto quindi non destare almeno qualche interrogativo, già allora, una proposta di tali contenuti e di tale tono su pagine fino ad allora collocate in sicuro campo liberista ed europeista. Dal Corriere della Sera – e da altri grandi quotidiani italiani – era venuto fino ad allora un appoggio convinto e ininterrotto alle teorie economiche e alle decisioni politiche che avevano tenuto agganciata l’Italia al treno dell’Unione economico-monetaria.
La lunga e importante stagione delle privatizzazioni è stata simbolo e asse portante di quella fase. Lo smantellamento dell’Iri, le fusioni fra le banche privatizzate, la spinta alle liberalizzazioni nelle tlc e nell’energia e l’adesione allo sviluppo di mercati finanziari globalizzati sono state scelte strategiche consapevoli da parte di leader come Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi e lo stesso Draghi. Già all’epoca dell’ultima crisi della lira (nell’autunno 1992, sotto l’attacco speculativo di George Soros), il Governo di Giuliano Amato aveva colto l’occasione per sbloccare le privatizzazioni impostate sulla tolda globalista del Britannia. E Monti sul Corriere suggeriva un prestito internazionale per stabilizzare la lira; non certo stimoli “autarchici” o “sovranisti” al risparmio nazionale.
Come ebbe a scrivere Tommaso Padoa-Schioppa – che aveva vissuto in Bankitalia e alla Ue le stagioni della lira inflazionata, dei controlli ai movimenti di capitale, del conto corrente del Tesoro in via Nazionale e dei vincoli di portafoglio per le banche – ogni risparmiatore italiano doveva avere il diritto di sedersi “sulle tribune di Wimbledon”: doveva poter scegliere – per il suo patrimonio privato – la combinazione rischio-rendimento per lui d’eccellenza nell’offerta mondiale di securities e strumenti di gestione. Avrebbe potuto e dovuto uscire definitivamente dalla vecchia gabbia autarchica/sovranista fatta di titoli governativi, conti bancari e postali e azioni nazionali. L’Italia si doveva fidare di “Europa e mercati”, la scelta globalizzatoria era irreversibile e avrebbe dato risultati certi. Non c’era “Piano B”, non poteva esserci: qualunque alternativa sarebbe stata di per sé pericolosa, fonte sicura di problemi.
Se di titoli del debito pubblico italiano era lecito parlare – fra Roma e Bruxelles – era solo per lamentarne il loro eccessivo stock e per agire in direzione di un serio ridimensionamento (come del resto fece il governo Monti, eseguendo le direttive di austerity impartite da Ue e Bce). I “prestiti alla patria”, il dirigismo nazionalista nel mercato del risparmio per finanziare non meglio definite recovery nazionali pilotate dai singoli governi non erano e non sono previsti dagli Accordi di Maastricht: che hanno definitivamente dichiarato la fine delle guerre in Europa e l’armonia tecnocratica. Su tutto decide l’eurocrazia sulla base di noti parametri in vigore da 29 anni. Chi non fosse d’accordo, cercando magari “terze vie” o nuove compatibilità fra tradizioni finanziarie nazionali, regole Ue, agenzie di rating e dinamiche di mercato, sarebbe un pericoloso eversore (accusa recente ad alcuni parlamentari della Lega).
È stato fra l’altro in applicazione di questa rigida dottrina che nel 2005 fu rimosso – e poi inquisito e processato – l’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Fra gli incitamenti e gli applausi della stampa italiana liberista ed europeista, Fazio pagò essenzialmente il suo “patriottismo” bancario nell’opporre resistenza a due Opa estere apertamente appoggiate dalla City di Londra e dalla Commissione Ue. Fazio sosteneva che il risparmio degli italiani dovesse essere intermediato da banche italiane in favore del credito alle imprese italiane. Per questo approccio fermo il governatore fu cacciato: con l’intervento decisivo della magistratura e l’esordio dell’uso mediatico delle intercettazioni giudiziarie. AntonVeneta e Bnl finirono sotto il controllo di due gruppi europei. Meno di due anni dopo AntonVeneta fu comunque rivenduta da Abn Amro (già sulla via del dissesto) a Mps, che per quel riacquisto fece crack e dovette essere salvato con molti miliardi – rigorosamente “autarchici”- dei contribuenti italiani. Un “prelievo forzoso” paragonabile a una patrimoniale di scopo.
Tutto questo non è mai stato elaborato in alcun modo e a nessun livello dalla classe dirigente del Paese. E la rimozione sembra destinata a continuare anche durante e dopo i lavori di una nuova commissione parlamentare d’inchiesta sulla crisi del sistema bancario. Alla cui guida c’è Carla Ruocco (M5S): teorica dell’introduzione del reato di “disastro bancario”.
Molto tempo è comunque passato dai ruggenti anni Novanta del secolo scorso (quelli dell’Ipo Autostrade – sfociata anche nel crollo del Ponte Morandi – e dalla “madre di tutte le Opa” su Telecom, entrambe celebrate dai grandi media); e anche dai più turbolenti anni Zero e Dieci del ventunesimo secolo: dal crac globale del 2008 a quello italiano del 2011. La globalizzazione sta arretrando e la crisi del coronavirus – esplosa all’indomani di Brexit – mostra un drammatico ritorno del sovranismo all’interno dell’Ue: e non per azione dei populismi xenofobi e anti-Bruxelles; ma per iniziativa dei Governi dei Paesi membri che hanno chiuso le frontiere attorno all’Italia prima che il Governo di Roma lo facesse attorno a 26 province del Nord.
Think different può rivelarsi salutare e perfino obbligatorio: ma non lanciando proposte che alla fine non paiono meno mediatiche e populiste di quelle che vorrebbero spingere l’Italia fuori dall’euro (stiamo semmai assistendo all’Europa che isola l’Italia anche sul piano finanziario: e in carica a Palazzo Chigi non c’è più Matteo Salvini, ma il “governo Orsola” per cui, almeno a parole, ha tifato la stessa Ue).
Mobilitare il risparmio nazionale si può e forse si deve, ma non senza un’operazione-verità anzitutto nei modi di leggere la realtà economico-finanziaria e nella credibilità di chi lo fa e soprattutto di chi è poi chiamato a decidere. A Monti nessuno potrà mai rimproverare mancanza di coerenza intellettuale e di rigore istituzionale nell’aver condotto il Paese nel 2011-12. Gli andrà invece sempre dato atto di aver realizzato le politiche che si era prefisso: raccogliendo consenso interno al Parlamento e spendendo al servizio del suo Paese un patrimonio di credibilità personale conquistato sul campo in Europa. Resta il fatto che il montismo – per molti ragioni, in gran parte fuori dalla sua responsabilità – non ha funzionato nel rilanciare l’Azienda-Italia. E se oggi Monti non ha certo perduto in autorevolezza, non sarebbe oggettivamente credibile sul piano politico per rimettersi alla guida di un governo istituzionale. Non è un fatto di competenza: ma di funzionamento di una governance democratica evoluta.
E’ prevedibile che un futuro governo “di salute pubblica” dovrà ragionare sulla valorizzazione di giacimenti di risparmio italiano ancora corposi (i depositi bancari e postali liquidi sono fra l’altro al record, nonostante rendimenti negativi). Può darsi che un’istituzione come la Cassa depositi e prestiti possa funzionare da leva presso il risparmio delle famiglie in funzione di stimolo agli investimenti pubblici e privati senza diventare una “nuova Iri”. Anche per questo non sembra davvero più il tempo di estemporanee operazioni “patriottiche”: oggi anzitutto di dubbio effetto reale, vista la distruzione sistematica di fiducia in quei risparmiatori che sono poi gli stessi cittadini-contribuenti iper-sfiduciati nelle istituzioni nazionali ed europee.
Non può certo essere un “prestito nazionale” l’equipollente mascherato di un prelievo patrimoniale soft, tanto più con tutti gli equivoci irrisolti sul piano politico. La Ue prospetta da anni all’Italia interventi simili in funzione taglia-debito, mentre un leader nazionale come il segretario della Cgil Maurizio Landini li invoca per il contrasto redistributivo alle diseguaglianze interne (una posizione consonante con quella del magistero di Papa Francesco, oggi a fondamento del cantiere di un nuovo partito dei cattolici italiani).
Sembra d’altronde il tempo perché un nuovo Governo istituzionale – un Governo degno di questo nome e di un Paese come l’Italia – “resetti” strutturalmente la politica finanziaria: aprendo negoziati di effettiva serietà con l’Ue, ma forse meglio con i principali Paesi Ue (da febbraio in teoria Francia e Germania hanno aperto un biennio di “rifondazione” della governance finanziaria dell’Unione) Vanno fissati – forse non solo per l’Italia – parametri nuovi, adeguati a tempi d’emergenza. L’Italia ha il dovere di assumere impegni a medio termine sul rientro del debito, verificabili ogni anno; ma ha anche il diritto di chiedere (di darsi) spazi economico-finanziari fuori dall’irrealtà strumentale dei parametri di Maastricht. Poi il quadro macro del riequilibrio dovrà essere tradotto in policy nazionali, modulando l’intera cassetta di attrezzi disponibile su tutti i fronti/canali: spesa pubblica corrente, investimenti, fisco e previdenza, politiche industriali, del lavoro, del welfare. L’obiettivo – come ha affermato Wolfgang Münchau sul Financial Times – non può più essere l’uso dell’Italia come banco-prova esemplare dei (supposti) benefici del rispetto delle regole europee “alla tedesca” (in precedenza il Paese era stato usato come “parco giochi” del liberismo finanziario in Europa). L’obiettivo è quello di rilanciare una Repubblica democratica “fondata sul lavoro”. Ha notato recentemente sullo stesso FT Raghuram Rajan, già governatore della Banca dell’India e collega di Luigi Zingales all’University of Chicago: “C’è bisogno di fresh policies, not old discredited ones“.