L’industria automotive europea, in questo momento, può solo scegliere come perdere denaro nei prossimi anni. Può cominciare a mettere da parte i soldi per pagare le multe dell’Unione europea che inevitabilmente scatteranno quando nessuno o quasi riuscirà a rispettare la media di 95 grammi al chilometro per le emissioni di CO2 della gamma venduta. E non si tratta di bruscolini: una stima effettuata da GlobalData racconta che per il settore la cifra potrebbe arrivare fino a 24,5 miliardi di euro. Una botta mai vista. Oppure, come sta facendo, può investire una montagna di denaro (gli ultimi dati parlano di 225 miliardi di euro) sull’elettrificazione dei propri veicoli e spingere sulle immatricolazioni delle auto a batteria come se non ci fosse un domani, costi quel che costi, cercando di convincere i clienti che i veicoli elettrici sono un’alternativa possibile a quelli tradizionali.
Finora ci hanno provato in tutti i modi possibili e immaginabili, ma non ci sono riusciti e le vendite in Europa delle auto ibride sono arrivate nel terzo trimestre di quest’anno al 6,3% – alcune ibride, tra l’altro, hanno una batteria talmente piccola che contribuisce ben poco alla riduzione delle emissioni -, mentre quelle elettriche toccano il 3,1% del totale, la maggior parte delle quali sono vendute alle aziende per le loro flotte e non a privati. Poca roba. Soprattutto perché, contraddizione nella contraddizione, il calo delle vendite dei diesel che emettono meno CO2 e l’aumento delle immatricolazioni di auto a benzina che ne emettono di più hanno fatto crescere e non diminuire le emissioni medie delle gamme dei costruttori, nonostante l’aumento delle auto elettrificate.
I margini il settore li fa, e li farà nei prossimi anni, con le “vecchie” auto con motori a combustione interna, ma il denaro guadagnato verrà mangiato dalle multe europee, dagli investimenti nei veicoli elettrici e dalle perdite sui veicoli elettrificati venduti. Perché, è bene sottolinearlo, nessuno finora ha mai avuto il coraggio di dire che sta guadagnando soldi costruendo auto elettriche.
In questo momento lavorare per il settore è difficile per tutti. Al vertice si devono prendere decisioni che si sanno in qualche modo già sbagliate, a medio livello bisogna vendere ciò che non si comprerebbe (o si farebbe comprare a un amico o un parente) e a basso livello si sente, mica tanto inconsciamente, che si diventerà la prima vittima del taglio dei costi che negli uffici e negli stabilimenti di alcuni grandi costruttori, come Jaguar, Ford, Opel e Daimler, è già partito. Anche gli investitori non sono tranquilli: Mercedes ha già lanciato quattro profit warning solo quest’anno, Renault e Fca hanno tagliato le stime degli utili, Bmw ha annunciato durante la conferenza di bilancio di attendersi nel 2019 un margine di profitto operativo più basso rispetto a quello dello scorso anno e Volkswagen ha tagliato le previsioni di crescita dei guadagni per il 2020. Una debacle.
Ma se si trovano alle corde, i grandi costruttori devono prima di tutto dare la colpa a se stessi. Beccati, alcuni e non tutti, con le mani nella marmellata con il dieselgate, colpiti dall’ondata di ambientalismo gretino, alle prese con un continuo attacco con dati molte volte inventati o forzati, elaborati da pseudo istituti di ricerca finanziati da fondazioni, a loro volta finanziate da altre fondazioni in un intrigo imperscrutabile, le case automobilistiche hanno “mostrato il petto” senza reagire mai, come se ritenessero giusto essere prese a schiaffi. Invece di cercare di riportare il dibattito talebano sulle naturali basi tecniche, tecnologiche ed economiche, hanno chinato il capo e si sono arresi. Divisi su tutto, o quasi, non hanno saputo fare fronte comune, in Italia come in Europa, di fronte a scelte politiche irrazionali.
Nessuno ha detto nulla e l’Acea, l’associazione dei costruttori di auto, non è mai riuscita a incidere politicamente, nonostante il settore dia lavoro a oltre 3 milioni di persone nel Vecchio continente. I costruttori tedeschi, che hanno, o è meglio dire avevano, un peso politico straordinario nel loro Paese e di conseguenza a Bruxelles, non hanno reagito perché, con ogni probabilità, si vergognano profondamente dei trucchi messi in campo sui test sui diesel e devono farsi perdonare. Poco importa se una parte consistente delle difficoltà economiche che sta attraversando la Germania sono riconducibili al rallentamento dell’industria automotive. I giapponesi cavalcano l’onda delle auto ibride e sono felici. I francesi non hanno fatto un plissé e gli italiani (Fca) non contano nulla. I cinesi, invece, si fregano le mani perché il gap tecnologico sui motori termici era ed è incolmabile, mentre fare un’auto elettrica è molto più semplice e redditizio, specie se dispone di una buona parte delle materie prime mondiali per realizzare le batterie.
Sono rimaste solo due speranze ai costruttori europei per poter ribaltare una situazione che sembra davvero disperata. La prima è un salto tecnologico, l’Uovo di Colombo che ci porti in un amen a una batteria con un’autonomia di 7-800 chilometri, si ricarichi in una ventina di minuti massimo e che costi davvero poco. A quel punto i tre fattori che bloccano le vendite di auto elettriche verrebbero meno e, forse, gli automobilisti comincerebbero ad apprezzarle. La seconda speranza è che alla fine l’Ue, gli Stati europei, tutti, le Regioni, i Land, i Comuni, insomma, le amministrazioni pubbliche, ovvero tutti noi, aprano i cordoni della borsa e facciano cadere sui clienti delle concessionarie una pioggia di incentivi per un lungo periodo di tempo, anni, lustri. Ma non quattro soldi come è avvenuto finora e per giunta “fino a esaurimento dei fondi”. Le sovvenzioni dovrebbero per lo meno far sì che le auto elettriche costino molto meno di quelle a combustione interna, magari vessando queste ultime con tasse, supertasse e gabelle varie. Almeno su questo punto i costruttori dovrebbero essere tutti d’accordo e, magari, dare un segno di vita.