Prima le fabbriche erano chiuse per evitare il diffondersi del coronavirus. Ora rimangono chiuse perché in Cina non si vende più un’auto. Le cifre sono terrificanti: le immatricolazioni sono crollate del 96% nella prima settimana di febbraio con una media giornaliera di 811 unità e nei primi quindici giorni sono scese del 92%. Secondo l’Associazione cinese dei produttori le consegne di questo mese potrebbero ridursi di circa il 70%, con un conseguente calo di circa il 40% nei primi due mesi del 2020. «Nella prima settimana di febbraio c’era a malapena qualcuno presso i concessionari di auto e la maggior parte delle persone sono rimaste a casa», ha dichiarato il segretario generale dell’Associazione Cui Dongshu, che ha aggiunto come i rivenditori abbiano ripreso gradualmente a lavorare nella seconda settimana di febbraio quando le vendite giornaliere di autovetture in tutta la Cina si sono attestate a 4.098 unità, con un calo di “solo” dell’89% rispetto all’anno precedente.



La situazione potrebbe migliorare ancora nelle prossime settimane, ma è molto difficile che il primo mercato mondiale dell’auto possa chiudere l’anno con una cifra vicina ai 25,77 milioni di veicoli venduti lo scorso anno. L’istituto di ricerche Ihs Markit (che per il 2020 aveva previsto una produzione di 23 milioni e mezzo di veicoli) ha stimato i veicoli non prodotti in 350 mila unità, se  lo stop fosse durato fino al 10 febbraio, ma la cifra potrebbe salire fino a 1,7 milioni nel caso la produzione fosse bloccata fino a metà marzo.



Un disastro per i produttori che si somma agli ormai innumerevoli disastri che stanno lentamente e inesorabilmente affondando tutto il settore automotive che a livello globale dà lavoro a 50 milioni di persone. Intanto, le fabbriche di automobili nel mondo, come tutte quelle che utilizzano componentistica cinese, stanno soffrendo la mancanza di forniture. Hyundai ha dovuto chiudere alcuni impianti in Corea, Nissan una fabbrica in Giappone e Fca ha ipotizzato il fermo della produzione in Serbia. Il blocco della fornitura di componenti causata dalla chiusura degli impianti in Cina, secondo S&P Global Rating, potrebbe ridurre di almeno del 15% la produzione mondiale di automobili nel primo trimestre del 2020.



Fin qui i numeri, ma il sentiment tra gli addetti ai lavori è ancora peggiore perché arrivano soltanto cattive notizie. L’ultima è del quotidiano tedesco Handelsblatt, secondo il quale Daimler (Mercedes) licenzierà 15.000 persone nei prossimi due anni, il 50% in più dei tagli annunciati lo scorso anno. La penultima (di tre giorni fa) l’ha data il ceo di Nissan Makoto Uchida che dopo aver presentato il peggior risultato operativo degli ultimi 11 anni ha promesso agli azionisti una ristrutturazione dei costi «senza taboo» e ha aggiunto: «Il piano porterà benefici tangibili a tutti. Se così non dovesse essere, non mi opporrò al licenziamento immediato». Una sorta di harakiri preventivo che descrive più di ogni altra cosa l’atmosfera che si respira nel settore.

La stessa che non si vedrà a Pechino, dove il salone più importate del mondo, previsto per i primi d’aprile, è stato rimandato per ovvie ragioni a data da destinarsi e la stessa che, invece, si spanderà fino toccare vette  imprevedibili al salone dell’auto di Ginevra in programma a partire dai primi giorni di marzo. Sarà forse il peggior salone di sempre con pochi visitatori, asiatici assenti o visti con sospetto e addetti ai lavori che avrebbero fatto carte false per non andarci.

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