“Da sempre, per quel che mi ricordo, sento dire che il Comunismo non funziona, che una società autoritaria non è efficiente, che i cinesi non sono creativi, che la speculazione immobiliare non potrà che esplodere assieme a debiti ormai insostenibili. Eppure non passa giorno senza che io veda la Cina avanzare in maniera spettacolare”. Ray Dalio, gestore di Bridgewater, uno dei finanzieri più stimati di Wall Street, ha voluto suonare così l’allarme di fronte all’avanzata del Drago, uno dei temi che s’imporranno all’attenzione del Presidente, che si tratti di Trump (che finora ha sbagliato tutto, visti i risultati) o del democratico Joe Biden, che sul fronte di Pechino non appare più soft del rivale. Eppure, a fine ottobre, l’America annaspa alle prese con la pandemia e l’economia in bilico, mentre la Cina trionfa.
L’ultimo segnale arriva dagli indici di Borsa di ottobre. L’indice Csi 300, relativo a Shanghai e Shenzhen, guida la classifica mondiale delle performances con un guadagno complessivo del 4,30% circa, contro una perdita nell’ultimo mese del 7% dell’indice Eurostoxx e del 2% dello S&P 500 americano. Il divario si amplifica partendo dal primo gennaio: Cina +15%, Nasdaq +19%, S&P500 -1,6, Eurostoxx 50 -22%.
La settimana prossima le Borse di Shanghai e Hong Kong ospiteranno il debutto della matricola più ricca della storia: Ant Group, un colosso dei servizi finanziari che ha raccolto 37 miliardi di dollari da 600 milioni di clienti cui offre servizi d’avanguardia che vanno dai pagamenti elettronici, anche i più modesti (nessuno usa il contante), fino alla vendita di fondi di investimento o credito al consumo. Un’intuizione di Jack Ma, il creatore di Alibaba che trent’anni fa era un modesto insegnante di inglese. Non finiscono qui i primati della finanza gialla. Le Borse cinesi hanno superato pochi giorni fa il tetto dei 10 mila titoli quotati. Lo yuan è da anni una delle monete più stabili, circostanza che sta favorendo la corsa alle obbligazioni da parte dei gestori occidentali che sfruttano interessi superiori al 3%.
Ma, al di là dei numeri, a colpire l’Occidente è la capacità dimostrata nella gestione della pandemia, ormai sotto controllo. Merito dell’autoritarismo? In parte sì, perché la Cina è anche il Paese che non esita a trasformare la terra degli Uiguri in un grande campo di prigionia. Ma questo non spiega il successo delle strategie di altre nazioni asiatiche che non sono dittature: Taiwan, leader nei chips, ha festeggiato i 200 giorni senza un contagio; la Corea del Sud, altro gigante della tecnologia, lamenta 112 casi in tutto. E il documento approvato dal quinto plenum, la riunione del Comitato centrale del Partito comunista dedicata alle linee guida del prossimo piano economico quinquennale, orizzonte 2025, e gli obiettivi per il 2035, individua nell’autosufficienza tecnologica il primo passo necessario per centrare entro il 2050 l’obiettivo di entrare nel club delle nazioni più ricche del pianeta. Grazie anche alle riforme che serviranno a ridurre il divario e a diminuire le emissioni.
Sarà vero? Di sicuro non sarà facile. E comunque non basta a eliminare la differenza per una società autoritaria. Ma, come scrive Dalio, questo non assolve l’Occidente dai pregiudizi che c’impediscono di apprendere la lezione di Paesi che vantano ormai un livello di istruzione, un grado di coesione sociale e una capacità di creare ricchezza che noi abbiamo perduto. E a lungo andare questo farà la differenza se continueremo a restare ciechi di fronte all’evidenza.