La settimana finanziaria si è chiusa con l’ultima (per ora) offensiva di Donald Trump. Il Presidente, scrive Bloomberg, è pronto a votare una legge che vieta la presenza a Wall Street delle società cinesi. Non è detto che ciò avvenga, ma la sola minaccia ha fatto vacillare i listini Usa, dove oggi sono trattate azioni di 156 società cinesi, con una capitalizzazione di 1.200 miliardi di dollari, assai più del doppio dell’intera Piazza Affari, il che dà una misura della profondità dei legami, anche finanziari, che si sono creati tra le due superpotenze.



La novità, poi, è caduta alla vigilia dell’ennesimo sabato caldo di Hong Kong: il movimento degli ombrelli è sceso in piazza per celebrare il quinto anniversario della nascita del movimento di protesta che rivendica diritti civili nell’ex colonia britannica dopo mesi in cui, tutto sommato, Pechino si è limitata a guardare gli eventi con un certo timore: la piazza finanziaria di Hong Kong ha un enorme valore strategico per la Cina, che si avvia a celebrare i 70 anni della Rivoluzione. Ma buona parte di quel valore è legata alla necessità di una finestra aperta sui mercati globali. Come reagirebbe il gigante giallo se questa finestra venisse chiusa all’improvviso?



Irrompe così un nuovo elemento in un quadro politico rovente. Donald Trump non esclude un accordo con la Cina, necessario per vendere soia e maiali a Pechino. Ma le relazioni, secondo la dottrina del Presidente, devono essere improntate a un rigido mercantilismo, basato sulla legge del più forte. Basta alleanze, scambio di tecnologia e, più ancora, circolazione di idee e di uomini. Il mondo, secondo i sovranisti, è una successione di castelli chiusi, protetti da ponti levatoi come nel Medioevo, con l’eccezione del salvacondotto per gli uomini del Presidente, compreso l’avvocato Rudolph Giuliani che può andare a trattare con la copertura diplomatica quel che interessa al Boss. Non è molto diversa la filosofia di Boris Johnson o, in chiave nostrana, l’atteggiamento degli amici di Matteo Salvini al Metropol di Mosca.



È questa la cornice in cui il mondo si avvia al confronto a tutto campo tra due filosofie diverse, ormai quasi inconciliabili. L’appuntamento è fissato per le elezioni americane da cui dipenderà tutto (o quasi): Trump alza la bandiera di Wall Street, sostenendo che una sua sconfitta segnerebbe la rovina del mercato. I democratici devono ancora decidere, ma molti segnali convergono su Elisabeth Warren, la nemica delle banche che sta già raccogliendo i frutti di una campagna condotta a tappeto negli States all’insegna di un cambio di rotta radicale sul fisco: basta con i tagli alle tasse, è l’ora di ripensare alla salute e all’istruzione per tutti. Sulla carta sembra votata alla sconfitta. Ma la Warren, che ha anche sangue indiano nelle vene, è una combattente che non si tira indietro, forte di una grande conoscenza dei meccanismi dell’amministrazione. Non è detto, insomma, che parta battuta.

Di sicuro siamo entrati in una stagione nuova: l’economia è destinata a soffrire, la finanza è anestetizzata, per ora, dai dazi bassi. Anche in Europa, almeno finché la Germania non deciderà (caso mai lo deciderà) di scrollarsi di dosso la stagnazione secolare cui la condanna il rifiuto di riavviare il motore dell’Europa. Speriamo che si decida prima che prenda corpo il Medioevo prossimo venturo.