Il consigliere climatico del presidente americano Biden, Gina McCarthy, qualche giorno fa ha dichiarato che le centrali nucleari del Paese sono “assolutamente essenziali” per centrare gli obiettivi climatici dell’Amministrazione. Il consigliere ha continuato dichiarando di attendersi che le centrali, anche quelle vecchie, continuino a essere sicure e che si aspetta che contribuiscano a tenere basse le emissioni. Il segretario per l’Energia Granhold è stato ancora più esplicito: “non saremo in grado di centrare i nostri obbiettivi climatici se le centrali nucleari venissero spente. Dobbiamo trovare un modo di tenerle in produzione”. 



Sottotraccia, ma nemmeno troppo, il nucleare sta tornando al centro del dibattito e i prezzi dell’uranio e dei principali produttori confermano che per gli investitori le prospettive sono tutt’altro che pessimistiche. Non è un caso che queste discussioni riprendano con questa forza proprio ora che si è deciso di procedere spediti, forse troppo, sulla via della decarbonizzazione e dell’elettrificazione del parco auto. 



L’Amministrazione americana ha ben chiaro che non saranno né i pannelli solari, né l’energia eolica, né tantomeno lo stoccaggio la risposta tecnologica al problema della transizione energetica. Infatti, il dipartimento dell’Energia americano ci tiene a specificare che per sostituire un giga di produzione nucleare servono o 3 milioni di pannelli solari o 400 turbine eoliche. È un bel modo per dire che il sogno della transizione verde, bellissimo, si scontra con una realtà fatta di produzione elettrica affidabile, programmabile, economica e compatibile con il territorio. È un altro modo di dire che la decarbonizzazione non è sostenibile per l’industria e i consumatori senza il nucleare. La produzione di idrogeno verde, per inciso, richiede tanta elettricità. 



In questi stessi giorni i prezzi degli idrocarburi rimangono vicini ai massimi degli ultimi cinque anni, mentre tutte le principali società petrolifere occidentali non possono assolutamente riaprire il ciclo degli investimenti, fermo dal 2015, altrimenti incorrerebbero in una lista interminabili di problemi: quelli imposti dagli investitori, quelli dei governi e quelli di un’opinione pubblica che probabilmente non ha bene in mente i termini della questione. Forse persino l’opposizione dei tribunali. Il mondo occidentale riapre e poi c’è un’intera parte del globo, i Paesi in via di sviluppo, che non può assolutamente permettersi i costi della transizione energetica e ha bisogno, come l’Italia cinquanta anni fa, di energia economica e affidabile. Centinaia di milioni di persone non hanno il gas in casa, non hanno la macchina, non hanno elettrodomestici e semplicemente non possono permettersi i costi di tecnologie non ancora mature e strutturalmente più costose. 

In questa situazione ci si aspetterebbe che l’industria petrolifera opponesse qualche resistenza, spiegasse quali sono i costi delle politiche energetiche soprattutto in un’economia ancora malconcia dopo un anno e mezzo di lockdown a singhiozzo. Non tanto sul petrolio ma sul gas, considerato più pulito e fino all’altro ieri la fonte di transizione, sarebbe stato lecito aspettarsi una resistenza. Il sospetto è che mentre si smette di investire in nuovi giacimenti di gas e si insegue il sogno della decarbonizzazione, senza nucleare, si possa lucrare per un tempo più lungo del previsto sui prezzi degli idrocarburi alti. Meno vendite, certamente, ma prezzi molto buoni. È una conferma indiretta che le politiche attuali, soprattutto in Europa, tra gli esperti non sono ritenute particolarmente efficaci se non al prezzo di imporre lockdown “verdi” su famiglie e consumatori per tenere artificialmente bassa la domanda. 

La transizione verde è un bellissimo sogno che si scontra con un’economia che si basa sulla disponibilità di energia sicura ed economica in un mondo in cui molti Stati semplicemente non si possono permettere i costi della transizione. In questo scenario alcuni attori, Stati Uniti, Francia, diversi Stati dell’Est Europa e non solo sembrano aver compreso che la soluzione non può che passare dal nucleare. Molti altri continuano a tenere aperte le centrali a carbone o a lignite. I Paesi in via di sviluppo non hanno la transizione verde in cima alla lista delle priorità. Chi procede spedito sulla decarbonizzazione senza alternative rischia di andare a schiantarsi.

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