Qual è la forma di investimento che ha reso di più finora nel 2021? Pochi probabilmente conoscono la risposta esatta: il carbone australiano che registra finora un guadagno dell’80% circa a 146 dollari la tonnellata, ai massimi da oltre dieci anni, imitato dal minerale estratto dalle miniere del Sud Africa, che si deve accontentare di un più modesto 44%, la stessa percentuale di aumento registrata dal petrolio Brent, assai al di sopra delle performances delle case in America, pur in ascesa del 28% o dei titoli finanziari di Wall Street che, con un lusinghiero +26%, guidano la classifica dei grandi listini azionari.
Insomma, nei giorni in cui i ministri dell’ambiente del G20 si sono riuniti a Napoli per “imprimere una fortissima accelerazione nel passaggio alle energie rinnovabili”, come ha detto il ministro italiano Roberto Cingolani, i mercati fanno a gara per approvvigionarsi del nemico numero uno, il carbone. E la missione di abbassare di 1,5 gradi la temperatura con un drastico sforzo per “decarbonizzare” l’economia appare davvero difficile. A complicare il percorso, ironia della sorte, è anche la stessa emergenza climatica che ci impone di agire in tempi stretti. Esemplare il caso della Cina, la prima responsabile dell’aumento dei prezzi del carbone.
A spingere gli acquisti di Pechino, nonostante la ripresa meno robusta del previsto, hanno contribuito proprio le emergenze climatiche: la siccità che ha colpito le regioni del sud-est ha messo fuori uso le centrali idroelettriche al pari delle recenti, impressionanti alluvioni che hanno devastato territori condizionati dalla costruzione di dighe e barriere. Hanno pesato anche le difficoltà di alcuni fornitori, come l’Indonesia investita da piogge rovinose, o la decisione di non comprare più il carbone dell’Australia, da sempre il primo fornitore, con cui è in atto una sorta di guerra diplomatica.
Le cause sono tante, ma il risultato è uno solo: nonostante l’aumento sostenuto della produzione di energie rinnovabili, i consumi di energia elettrica tendono a crescere più dell’offerta. E così, calcola l’Agenzia Internazionale dell’Energia, le rinnovabili non potranno che coprire la metà dell’aumento dei consumi del 2021/22 (rispettivamente il 5% e il 3%).
Questi numeri cadono in un momento particolare: la necessità di misure urgenti è chiara e condivisa da un numero crescente di Paesi, dai tedeschi e dai cinesi, appena colpiti da alluvioni quasi certamente correlate ai cambiamenti climatici. E dall’Italia, che secondo Legambiente da inizio 2021 ha visto il suo territorio toccato da 208 fenomeni meteorologici intensi. Ma cambiare è più facile a dirsi che a farsi. Anche perché impone rinunce spesso imprevedibili.
Prendiamo in caso della Gkn, la multinazionale protagonista dei licenziamenti di Campi Bisenzio. In settimana la società ha rinnovato e rafforzato l’accordo con Jaguar per sviluppare il propulsore elettrico della casa inglese. Il mondo automotive si sposta a grande velocità verso l’elettrico, come del resto impongono i piani dell’Unione europea. E le lavorazioni tradizionali, legate ai motori a combustione passano in secondo piano e, in prospettiva, cancellate. Altro che delocalizzazioni. Il tutto, peraltro, in un clima di forte incertezza.
“Per migliaia di anni – ha commentato l’armatore Paolo D’Amico – il mondo è cresciuto così: prima s’inventava la ruota, poi venivano le ricadute produttive. Adesso stiamo seguendo il percorso inverso: prima si segnalano gli obiettivi da raggiungere, poi si vedrà come fare”. È una strada obbligata, ma anche assai complicata che pure ci tocca percorrere, nella consapevolezza che nulla, a partire dalla mobilità fino all’alimentazione, potrà restare quel che è oggi.
Al G7 per la prima volta i Grandi si sono accordati su “zero emissioni” entro il 2050, un taglio netto entro il 2030, la rinuncia ai combustibili fossili, 100 miliardi all’anno ai Paesi in via di sviluppo per investire in energia pulita, che dovranno essere migliaia di miliardi dal 2025 in poi. Ma ora dalle parole si deve passare ai fatti. È la sfida vera, il confine tra progressisti e conservatori in cui si creano ruoli e alleanze impensabili: Mark Carney, già Governatore della Banca d’Inghilterra, è oggi l’inviato dell’Onu in materia ambientale. E molti privati e banche, come dimostra il successo dei green bond, hanno capito che l’ambiente è la migliore chance per investire dopo la Rivoluzione industriale, preservando crescita e lavoro.
Dice Alok Sharma, presidente della Cop 26, il vertice ambientale che si terrà a Glasgow in autunno: “Negli ultimi 30 anni, l’economia britannica è cresciuta dell’80% tagliando le emissioni del 40%”. Ergo, è possibile coniugare crescita e ambiente. Ma il difficile, ci ricordano i numeri del carbone, arriva adesso.
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