Checché ne dicano i due vicepremier, le raccomandazioni contenute nella letterona di Bruxelles rappresentano un pesante richiamo per questo esecutivo. Anche perché non si è verificato quanto incautamente sperato nei mesi scorsi, cioè un ribaltone degli equilibri politici in sede europea così robusto da rimettere in discussione le regole in uso per valutare se il debito di un Paese sia o meno “eccessivo”. Di qui l’utilità di un bagno di realismo: l’Europa così com’è rappresenta comunque, grazie alla Bce, l’unico serbatoio di liquidità cui attingere per contrastate il rischio di un collasso innescato dalla nostra incapacità di frenare l’ascesa del debito pubblico, la malattia che ci divora e che si autoalimenta a danno della crescita. Una malattia che, peraltro, dipende solo da noi, come spesso si tende a dimenticare con effetti fuorvianti.



È senz’altro efficace, per esempio, l’arma retorica usata da Matteo Salvini: che cosa scegliere tra il latte per i bambini e il rispetto delle regole di Bruxelles? Ma è un’evidente fesseria, un po’ come i comunisti che mangiano i bambini o altre esagerazioni retoriche che, purtroppo, di questi tempi funzionano. Il nostro debito non dipende di sicuro dal latte per le creature. E nemmeno, ahimè, da un eccesso di spesa per l’educazione delle creature. Non siamo in Finlandia, dove il neo costituito governo ha deciso di alzare le tasse per finanziare l’aumento della spesa in ricerca e istruzione per fronteggiare la necessità di preparare le nuove generazioni a un mercato del lavoro sempre più esigente. Da noi lo sfondamento delle barriere a protezione della finanza pubblica si è accompagnato al calo degli investimenti pubblici, oggi inferiori a dieci anni fa.



È questa l’altra faccia della crisi, che minaccia di pregiudicare il nostro futuro. Si spende male, ma, per giunta, si spende anche troppo poco. E data l’incapacità di venire a capo del debito emergono idee bizzarre, da repubblica delle banane, come la scorciatoia dei mini-Bot che segnala la follia che comincia a dilagare anche in Parlamento. Intendiamoci, non è improbabile che di qui a ottobre, il Governo possa disinnescare la procedura d’infrazione, anche perché l’Europa, investita dalla Brexit, vorrà evitare uno scontro violento e pericoloso. Ma un’assoluzione in extremis non servirà che a rinviare il problema, laddove abbiamo necessità, finché siamo in tempo, di avviare terapie più solide.



Si può chiedere l’aiuto all’Europa, come suggerisce Francesco Giavazzi, per avviare le riforme, come ha fatto il Portogallo. Oppure basta presentare un programma di aggiustamento di bilancio morbido ma coerente che non imponga uno sforzo fiscale troppo consistente, tale da finire per essere controproducente. L’importante è individuare, prima in Italia poi con Bruxelles, un terreno per una trattativa che guardi al medio termine senza forzature retoriche o da campagna elettorale.

I margini di manovra ci sono, se ci vorremo sedere al tavolo con uno spirito costruttivo, convincendo gli altri che si vuol fare una riforma fiscale per rilanciare la crescita e non favorire i soliti furbi. Qualcosa di davvero rivoluzionario, che potrebbe occupare in maniera virtuosa il resto dell’attuale legislatura.

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