Numerosi commentatori si sono chiesti quali possono verosimilmente essere le conseguenze politiche del Russiagate, ma pochi hanno sinora analizzato le possibili implicazioni economiche, nonostante l’andamento dell’economia sia sempre più intrecciato con quello della politica, specialmente nell’epoca della comunicazione e dell’informazione. Per Russiagate intendo il groviglio giudiziario, parlamentare e giornalistico relativo a una presunta corruzione internazionale collegata a compravendite (non si se mai effettuate) di olii minerali russi. Voglio precisare che, a mio avviso, sulle basi di quanto uscito sinora, mi pare una bufala grossa come una casa di cui sarebbero protagonisti dilettanti che parlano un inglese da liceali in un luogo non solo pubblico, ma aperto a mille orecchie. Spetta ai magistrati stabilire se tra tanto fumo ci sono reati. Sinora, però, è emerso un maledetto imbroglio: chi sulla base di conversazioni di alcuni improvvisati agenti internazionali, ha lanciato l’affaire intendeva probabilmente mettere uno dei due contraenti del contratto di governo nella posizione di non aprire una crisi che potrebbe portare a elezioni in autunno. Sta forse ottenendo l’effetto opposto.



Andiamo agli aspetti strettamente economici. Il Russiagate scoppia in un’Italia che non è in buona salute né sotto il profilo dell’economia reale, né sotto quello della finanza pubblica. Poco importa se a consuntivo di questo anno, il Pil sarà cresciuto dello 0,1% o dello 0,2%. Il Paese è tecnicamente in stagnazione e rischia di finire presto in una nuova recessione. Lo suggerisce il rapporto del Consensus Forecast (basato su trenta istituti di analisi econometrica, tutti privati, nessuno italiano) diramato l’8 luglio agli abbonati al servizio. A conclusioni analoghe giunge Focus Economics che segue un metodo leggermente differente. Le stime di Consensus Forecast, poi, riguardano 24 mesi mentre quelle di Focus Economics si spingono a cinque anni pur avvertendo che più si guarda lontano, meno si è attendibili. Sono meno ottimistiche di quelle pubblicate, più o meno negli stessi giorni, dalla Commissione europea e che ponevano il tasso di crescita per il 2020 allo 0,7%. Stimano, infatti, un incremento del Pil tra lo 0,3% e lo 0,5%.



Da un lato, si potrebbe quasi stappare champagne per avere evitato la recessione; sarebbe come i recenti applausi che uno dei due vicepresidenti del Consiglio ha dato a se stesso alla notizia dell’aumento del numero di occupati, tralasciando di avvertire che il numero delle ore lavorative era diminuito (forse aveva letto il comunicato Istat di gran corsa e senza badare troppo ai numeri). Da un altro, però, leggendo con attenzione i due documenti e soffermandosi sui rischi di previsione ci si accorge che le analisi pongono l’accento su: a) il fatto che l’Italia resterebbe (con una crescita dello 0,3%-0,5% del Pil) il fanalino di coda dell’Unione europea; b) le previsioni ipotizzano la prosecuzione di una crescita moderata dell’economia mondiale; c) l’economia del Paese resta fragile e suscettibile di scivolare in un tasso negativo d’andamento del Pil alla più piccola tensione internazionale o interna.



In questi ultimi giorni, appare evidente che un rallentamento dell’economia internazionale è alle porte. In parte, una determinante sono le guerriglie commerciali in atto. La ragione principale, tuttavia, è che le due maggiori economie mondiali (Cina e Usa) stanno frenando contemporaneamente. Le statistiche di Pechino sono poco affidabili; tuttavia, gli stessi dati cinesi indicano che il tasso di crescita del Pil è in netta flessione dal 6,7% circa dell’anno scorso al 5,5% quest’anno; soprattutto è in atto una forte riduzione del tasso di risparmio delle famiglie. Negli Stati Uniti, l’economia cresce da 121 mesi, la più lunga fase di espansione dal 1854, secondo i dati del National Bureau of Economic Research. Le simulazioni econometriche suggeriscono che già l’anno prossimo l’economia degli Stati Uniti potrebbe dare segni di recessione.

In questo contesto, dato che i tassi d’interesse sono rasoterra, non potendo dilatare il deficit di bilancio sia a ragione degli impegni assunti dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dal ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria nella lettera inviata alle autorità europee il 2 luglio (per disinnescare o solo allontanare le temuta “procedura d’infrazione”), sia a ragione dell’alto debito rispetto al Pil, l’Italia ha un’unica strada: ristrutturare drasticamente la spesa pubblica, riducendo quella di parte corrente ed espandendo quella in conto capitale per progetti pronti in grado di attivare, nella fase di cantiere, fattori di produzione parzialmente utilizzati e di aumentare, a regime, la produttività.

È operazione molto difficile per qualsiasi Governo, soprattutto se deve essere effettuata in pochi mesi (quelli che ci separano dalle Legge di bilancio) e che pure in un monocolore richiederebbe grande coesione tra i titolari dei differenti dicasteri. Prima del Russiagate tale operazione era comunque ardua, anche perché i M5S avrebbe dovuto accettare l’alta velocità Lione-Torino (il maggiore progetto in cantiere). Dopo il Russiagate e gli scambi di insulti all’interno dell’Esecutivo, pare impossibile. Lo sarebbe anche in caso di ribaltone e di formazione di un Governo M5S-Pd.

Il Russiagate, quindi, costa caro: è il percorso verso una nuova recessione.