Come da ampissime previsioni, mercoledì è iniziata la procedura dell’impeachment di Donald Trump. Allo stesso modo oggi si dà per scontato che la procedura si fermerà al Senato dove i Repubblicani hanno ancora la maggioranza. Lo scenario rimane però complesso. Intanto i Democratici con ogni probabilità riusciranno a posticipare la votazione al Senato di molti mesi obbligando Trump e il partito a rimanere sotto pressione da un punto di vista politico e mediatico. L’idea di un Presidente sotto costante rischio di impeachment potrebbe essere un elemento di debolezza e, più importante, dà tempo di dare più consistenza alle accuse o più semplicemente di fare emergere nuovi elementi. Non importa che questi siano effettivamente efficaci da un punto di vista giudiziario, quello che conta è “sporcare” il più possibile la campagna presidenziale di Trump.
L’impressione è che la messa in stato di accusa del Presidente si basi su argomenti deboli, su testimoni “prevenuti”, su fatti che non avrebbero mai portato altri Presidenti nella situazione attuale. Trump in sostanza è un’anomalia che in qualche modo deve essere sanata, anche violando lo “spirito” della legge.
Sono proprio le ragioni fragili di questo impeachment a dare l’indicazione migliore sulle presidenziali del 2020. Se si votasse domani, Trump vincerebbe nonostante le accuse di “razzismo”, nonostante l’improbabile capigliatura o il disinvolto uso di twitter, nonostante i media schierati. Verrebbe confermato perché la disoccupazione è ai minimi, il “mercato” sale ininterrottamente dal giorno della sua elezione nonostante molti “esperti” avessero previsto un crollo.
Il nuovo accordo commerciale con Canada e e Messico è migliore di quello di prima, il confronto con la Cina, seppur ben lontano dalla conclusione, era in qualche modo necessario. In politica estera non si registra l’inizio di nessun nuovo conflitto e la volontà di dialogare con la Russia e di ritirarsi dal Medio Oriente è chiara.
Certo le fragilità finanziarie, profondissime, degli Stati Uniti rimangono irrisolte, l’onnipotenza di “Wall Street” o dei monopoli californiani anche, ma le fragilità profonde sono una condizione che vivono anche gli altri principali attori globali dall’Unione europea alla Cina. In un certo senso siamo fermi al 2016, quando l’erede di un Presidente entrato in carica nel 2009 e vincitore di un premio nobel per la pace ha perso contro un personaggio da reality show nonostante il supporto compattissimo dei media americani. È stata un’elezione che ha fatto mancare la terra sotto i piedi ai Democratici. Anche oggi da Biden, a Buttigieg e forse persino Elizabeth Warren si pongono in continuità, in politica economica, con Obama. È una politica economica che non ha scalfito minimamente le disuguaglianze americane, anzi le ha allargate lasciando più forti di prima sia le banche protagoniste della fase che ha portato al 2008, sia monopoli che uccidono la competizione e lasciano i lavoratori americani senza protezione contro la concorrenza cinese.
Per buttare giù Trump e per fare in modo che perda le elezioni del 2020 oggi devono succedere solo due cose. La prima è che una parte del partito lo tradisca e giustifichi il “tradimento” con uno degli infiniti possibili scandali che possono colpire Trump; teniamo sempre presente che come dimostra il caso Biden/Ucraina, Trump con l’appoggio del partito avrebbe ampie possibilità di rispondere. La seconda è che la bolla del mercato scoppi prima delle elezioni. L’alleato di Trump in questo caso potrebbero essere proprio le grandi fragilità della situazione attuale perché probabilmente nessuno ha davvero il coraggio di vedere cosa succede se questi mercati fossero investiti da un’ondata di volatilità anomala.