BERLINO – “La libera concorrenza si aggrega sempre più in grandi concentrazioni della produzione. La conseguenza è un balzo nella socializzazione della produzione (grande società per azioni) che porta a una realtà molto diversa da quella delle piccole imprese che agiscono in concorrenza tra loro. Gli imprenditori capitalisti sono trascinati quasi contro la loro volontà in una nuova forma sociale che comporta il passaggio dalla libera concorrenza all’era dei grandi monopoli”.
Sono le parole con cui W.I. Lenin apriva il saggio L’imperialismo come sviluppo supremo del capitalismo. Secondo il rivoluzionario di Simbirsk sul Volga, l’età dei monopoli si sviluppò grazie alla crisi economica del triennio 1900-1903 che decretò la rovina di un gran numero di piccoli e medi imprenditori, la conseguente formazione di grandi monopoli, una forte disoccupazione di massa, la carestia e la fame per milioni di persone. È in questo periodo che avviene la trasformazione del capitalismo in imperialismo con tanto di trust, cartelli e monopoli internazionali.
Lette ancora qualche anno fa queste parole avrebbero evocato un mondo perduto fatto di paesaggi trasformati dalla rivoluzione industriale, ciminiere fumanti, stabilimenti con migliaia di operai al lavoro in stile “tempi moderni”, cieli cupi e carichi di fuliggine in attesa messianica del bagliore rivoluzionario. Un’era dei dinosauri di cui rimangono qua e là i fossili sotto forma di archeologia industriale. Lette oggi invece, con i venti di crisi definitive che tirano da tutti punti cardinali, le parole di Vladimir Il’ič Ul’janov suonano come un presagio nefasto.
I monopoli descritti da Lenin erano di tipo industriale, produttori di acciaio, miniere di carbone, ferrovie, cantieri navali. Oggi invece parliamo di qualcosa di completamente diverso. Meno palpabile, incorporeo, quasi astratto, ma altrettanto potente: il capitalismo del terzo millennio fondato su finanza e tecnologia dell’informazione ovvero soldi e intelligenza artificiale. In questi due settori le tante aziende o agenzie che negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso spuntavano come funghi sono sparite per lasciare il posto a dei giganti come BlackRock (la più grande società di investimento nel mondo fondata nel 1988), Two Sigma (società di trading fondata nel 2001 che utilizza tecnologie all’avanguardia come l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico), Apple, Google, Facebook, Amazon, Alibaba, Microsoft. Nel corso della loro galoppata per il controllo del mercato globale, questi colossi non hanno trovato ostacoli legislativi da parte di alcun governo o istituzione internazionale, anzi. A dire il vero i governi dei paesi democratici non hanno nemmeno espresso la volontà di contenere la tendenza al gigantismo dei nuovi monopolisti e in alcuni casi, come l’amministrazione Obama negli Usa, l’hanno assecondata con benevolenza.
Perché i monopoli sono deleteri lo ha spiegato il capo della sottocommissione antitrust della Camera Usa, David Cicilline, durante un’audizione recente sulle grandi piattaforme tecnologiche: “La democrazia americana è sempre stata in guerra con il potere monopolistico. Nel corso della nostra storia abbiamo riconosciuto che la concentrazione dei mercati e dei controlli politici sono incompatibili con gli ideali democratici. La loro capacità di dettare i termini, prendere le decisioni, controllare interi settori e incutere paura rappresenta il potere di un governo privato. I nostri fondatori non si sono inchinati davanti a un re. Nemmeno noi dovremmo inchinarci davanti agli imperatori dell’economia online”.
Il caso Blackrock vs Unione Europea è rappresentativo di quello che un monopolista moderno può spingersi a fare se, non solo non viene contrastato, ma è addirittura incoraggiato dalla politica, come spiega Albrecht Müller, ex responsabile economico della Spd (partito dei socialdemocratici) in Germania. Si tratta della parziale privatizzazione del sistema pensionistico tedesco alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Dietro all’introduzione del sistema integrativo non ci sarebbe stata una reale esigenza sistemica, ma la volontà, da parte dei fondi di investimento finanziario internazionale, di accedere al risparmio dei cittadini tedeschi. In quella circostanza, sostiene Albrecht Müller (video dell’intervista in tedesco qui), il gruppo BlackrRock riuscì non solo ad incassare la riforma tedesca, ma, mediante una pressante azione di lobbying sulla Commissione europea, ad ottenere che Bruxelles facesse pressione su tutti gli Stati membri affinché introducessero sistemi analoghi.
È interessante notare a margine che il probabile futuro presidente della Cdu tedesca, l’avvocato Friedrich Merz, sia stato presidente del consiglio di vigilanza di BlackRock Germania nel periodo 2013-2020. Tutto questo, ribadisce Müller, non ha più nulla a che vedere con una economia liberale fondata sulla libera concorrenza di imprese che competono sul mercato, ma è la violenza dei monopoli che riscrivono le leggi a loro vantaggio e, quasi a ricambiare il favore, assegnano ai politici europei ruoli di dirigenza nelle loro organizzazioni. Non esiste un solo partito di sinistra in tutta Europa che abbia speso mezza parola contro questa deriva.
Anche il sostenitore più sfegatato del libero mercato sa che per funzionare il principio della libera concorrenza deve essere regolamentato e protetto. Altrimenti degenera in monopoli e oligopoli, i quali a loro volta si fondono con la politica in un’osmosi di interessi pericolosa per la democrazia. Gruppi come Microsoft, Google, Facebook sono aziende transnazionali, hanno un marchio potente, milioni di utenti, operatività e relazioni su scala globale. Proprio come i gruppi industriali di una volta. E si muovono prima di tutto per trattenere i clienti nel loro spazio virtuale, utilizzando i loro dati personali come inconsapevole corrispettivo di un servizio. Così hanno potuto espandersi indisturbati assorbendo aziende concorrenti, si pensi all’acquisto di Instagram da parte di Facebook, o provocando il fallimento di migliaia di negozi su tutto il pianeta (Amazon), senza trovare nessun ostacolo da parte della politica. E mentre nel 2020 l’economia mondiale crollava in conseguenza del lockdown imposto dai governi per contenere la pandemia, Google, Facebook, Amazon e Apple comunicavano nuovi utili accrescendo il loro valore di mercato di 250 miliardi di dollari.
A questo punto è importante notare che tutte le aziende menzionate sopra sono partner strategici del World Economic Forum di Davos, che a luglio del 2020 ha lanciato il programma globale “The Great Reset”. Sul sito dedicato (link qui e qui) si può leggere la seguente introduzione: “È urgente che gli Stakeholders (parti interessate) globali collaborino per gestire contemporaneamente le conseguenze dirette della crisi del Covid-19. Per migliorare lo stato del mondo, il World Economic Forum sta avviando l’iniziativa The Great Reset”. Il programma si prefigge nientemeno che di “resettare” le fondamenta economiche e sociali del capitalismo mondiale grazie allo stimolo della pandemia Covid-19. Al fine di evitare una crisi economica peggiore di quella del ’29, si legge sempre sul sito, si rende necessario “rinnovare tutti gli aspetti delle nostre società e delle nostre economie, dall’istruzione ai contratti sociali alle condizioni di lavoro. Ogni paese, dagli Stati Uniti alla Cina, deve partecipare e ogni industria, dal petrolio al gas alla tecnologia, deve essere trasformata. In breve, abbiamo bisogno di un Grande Reset del capitalismo”.
Peccato che quando si cerchi di capire come le economie e le società debbano essere trasformate non esca fuori nulla a parte un fumoso concetto di governance completamente staccata, questo invece si capisce benissimo, da qualsiasi controllo o influenza statale. In altre parole, gli Stati sovrani non sono neanche contemplati nel Great Reset che sembra un paradiso dei monopolisti piuttosto che il bel mondo globale giusto ed egualitario evocato dalla brochure patinata del World Economic Forum. Non sorprende quindi che i nuovi monopolisti dell’It e della finanza internazionale siano i partner strategici di un progetto che lascerebbe loro mano libera su tutto.
A questo punto sorge spontanea una domanda: cosa direbbe la buonanima di Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin, il genitore 1 del comunismo (quello buono, sostengono i suoi anziani nipotini, mentre il genitore 2 Iosif Stalin era quello cattivo), se venisse a sapere che il manifesto dei nuovi monopolisti del Grande Reset è sostenuto con entusiasmo da tutto l’establishment della sinistra mondiale?