Il collocamento del Btp Italia della scorsa settimana ha avuto decisamente un grande successo, con una raccolta di oltre 22 miliardi di euro, a fronte di una richiesta complessiva di 19,5 miliardi. Il titolo, indicizzato all’inflazione italiana, offre una cedola annua reale dell’1,40%, direi ottima per la sua durata (quinquennale), con “premio fedeltà” raddoppiato rispetto alle precedenti emissioni (8 x mille del capitale investito), riservato a chi ha acquistato il titolo nel periodo di collocamento e lo detiene fino a scadenza.
Questa sedicesima emissione merita – a mio parere – più attenzione delle precedenti, essenzialmente per due motivi. Innanzitutto, per il risultato della prima fase di collocamento (dal 18 al 20 maggio): riservata ai risparmiatori individuali (retail), ha visto concludere circa 384 mila contratti per un controvalore pari a 13,99 miliardi di euro; mentre, nella seconda fase del collocamento (nella sola giornata del 21 maggio), dedicata a investitori istituzionali, sono stati eseguiti 746 ordini di adesione, per un controvalore di 8,3 miliardi di euro. Viste le prospettive di redditività reale (agganciata all’inflazione), la possibilità di adesione diretta anche tramite remote banking e l’azzeramento delle commissioni di sottoscrizione, il Btp Italia è sempre stato uno strumento privilegiato dalla clientela retail, ma questa volta l’esito è andato al di là delle aspettative, come si legge nel comunicato del Mef: “Anche il volume di sottoscrizioni nel corso della Prima Fase del collocamento, dedicata agli investitori retail, ha rappresentato sia per contratti che per controvalore il più elevato volume di Btp Italia sottoscritto da questa tipologia di investitori. La domanda, già molto sostenuta il primo giorno, è andata progressivamente crescendo nel corso del secondo e terzo giorno, a differenza delle precedenti emissioni in cui il ritmo di sottoscrizione, sia per controvalore che per numero di contratti, ha sempre visto un fisiologico calo nel corso della Prima Fase del collocamento”.
Tale fattore ha la sua importanza: la platea dei piccoli risparmiatori, infatti, è piuttosto incline a mantenere il titolo fino alla sua naturale scadenza, incentivato dalla presenza del premio fedeltà, diversamente da investitori istituzionali (banche, società di gestione del risparmio, fondi pensione, ecc.), che tendono a movimentare più frequentemente il portafoglio, anche al di là della redditività offerta, dovendo rispettare obiettivi strategici, tipologia e limiti di investimento prestabiliti nei mandati di gestione. In genere, mantenere l’investimento rende più stabile l’andamento della quotazione del titolo, fondamentalmente non speculativo, quindi non soggetto a flussi di vendita massivi.
Il secondo motivo di attenzione è dovuto alla “speciale riserva” dell’emissione, pressoché interamente finanziata dal mercato domestico e totalmente destinata a coprire le spese dell’emergenza Covid-19, dei provvedimenti per la ripresa economica e del sostegno a famiglie e imprese. Sembra quasi una sorta di prova generale all’impiego del risparmio allocato soprattutto in conti correnti e depositi, che in Italia ammonta a circa 1.400 miliardi di euro, individuato – non senza qualche ragione – come una delle principali risorse per finanziare, almeno parzialmente, il rilancio economico del Paese; anche il fatto che non sia stata prevista una chiusura anticipata al raggiungimento dell’importo richiesto, per favorire la massima partecipazione degli investitori sottolinea, a mio avviso, il carattere, per così dire, esplorativo dell’emissione.
Per fronteggiare la spesa sanitaria sarebbe possibile richiedere l’intervento della nuova linea di credito del Mes, su cui continua a infuriare una feroce polemica. In questo caso, si tratterebbe di prestiti a tasso assai contenuto (probabilmente inferiore all’1%) da restituire in 10 anni. Ipotizzando un tasso di interesse inferiore dell’1% rispetto a un ordinario Btp decennale e l’ammontare massimo erogabile dal Mes per l’Italia (intorno a 36 miliardi), il prestito costerebbe circa 360 milioni di euro di interessi all’anno.
Che cosa è meglio fare, tralasciando la querelle sulla condizionalità lieve (secondo gli intenti politici della Commissione Ue) o rigorosa (secondo l’opinione di insigni giuristi)? Non saprei di preciso. È vero che il debito italiano, come quello di molti altri Paesi, rischia di divenire insostenibile (per considerare solo quest’anno, l’importo massimo di emissione di titoli pubblici è passato dagli originari 54 miliardi previsti dalla Legge di bilancio 2020 a 148,3 miliardi stabiliti dal decreto rilancio), ma la rete protettiva stesa dalla Bce è uno scudo davvero imponente, che consente al nostro Paese di indebitarsi a costi relativamente contenuti e non vede al momento una fine prossima. Oltre al massiccio programma di acquisto di titoli di stato sul mercato secondario, infatti, la Banca d’Italia, che esegue gli acquisti per conto della Bce, retrocede al Tesoro a fine anno le cedole incassate: secondo un report della società di investimento Pictet – menzionato da Il Sole 24 Ore del 22 maggio – dal 2015 al 2019 la Banca d’Italia ha retrocesso al Tesoro interessi per circa 23 miliardi di euro. E se tale monetizzazione del debito da temporanea diventasse permanente? Qui entriamo nuovamente in un ginepraio, che lasciamo trattare agli economisti.
Del resto, anche prendendo i soldi dal Mes sempre di debiti si tratta, che dovranno essere restituiti. Come? Con tagli alla spesa (ora difficilmente programmabili con lungimiranza, tanto più che tagli inoculati rischierebbero di vanificare gli investimenti, come dimostra il settore della sanità), tasse di scopo o emissione di nuovo debito. Le vie non sono poi molte.