La Commissione europea ha tagliato ancora le stime di crescita dell’Italia, sempre più fanalino di coda tra i paesi membri, e ora si attende la valutazione che Bruxelles farà sui nostri conti pubblici a inizio giugno, con un focus particolare sul debito. Ricordiamo che alla fine dell’anno scorso si è rischiata l’apertura di una procedura d’infrazione per debito eccessivo nei confronti del nostro Paese. «Le stime della Commissione non sono diverse da quelle che abbiamo visto diffuse dagli altri enti che fanno previsioni. È un dato di fatto che il Governo ha portato una crescita che era all’1,5%, prima in negativo e poi, come si è visto nel primo trimestre dell’anno, poco sopra lo zero. Questo principalmente per due fattori», ci dice Leonardo Becchetti, professore di Economia politica all’Università Roma Tor Vergata.



Quali?

C’è stato un rallentamento dell’economia tedesca, specialmente del settore automobilistico, che, come quello italiano, non ha capito la transizione ecologica in atto. E ora paga dazio. Inoltre, quando bisognava continuare la politica di Industria 4.0, fondamentale per aiutare le aziende a far ripartire gli investimenti dopo la crisi finanziaria che li aveva ridotti per via del calo della domanda, questa misura è stata interrotta, producendo un crollo delle aspettative degli imprenditori.



L’Italia sembra poter finire ancora nel mirino della Commissione per via del debito pubblico. Cosa ne pensa?

Il debito è sostenibile quando gli interessi che su di esso si devono pagare sono minori del tasso di crescita del Pil più l’inflazione. Oggi l’Italia è tra i pochissimi paesi europei, se non l’unico, per cui le cose non stanno così. Questo è un problema serio, che si risolve aumentando la crescita e diminuendo lo spread e quindi gli interessi che si pagano sul debito.

Questa settimana lei è tornato a insistere sulla necessità di un intervento europeo per ridurre lo stock dei debiti pubblici cumulati…



Di proposte sul tappeto ce ne sono tante, come il piano Wyplosz che abbiamo inserito tra i punti dell’appello dei 350 professori per la riforma dell’Europa pubblicato su Avvenire. Esso prevede che la parte di debito eccedente il 60% del Pil sia acquistata dalla Bce e trasformata in un bond perpetuo a tasso zero. Ogni Paese, con le proprie risorse da signoraggio, pagherebbe questa ristrutturazione, in modo da evitare obiezioni riguardo la condivisione del debito. Oltre a questa ci sono altre proposte, come quella di Prodi e Quadrio Curzio o di Pagano. Il problema vero è che le proposte tecniche esistono, e darebbero una grande spinta all’Unione, ma richiedono un livello di fiducia tra i paesi che oggi è più difficile di quella che ci può essere tra gli individui.

Perché c’è questa difficoltà?

Perché un politico, anche se lungimirante, deve preoccuparsi anche di quella che può essere la reazione nel suo Paese, dove può essere accusato di cedere agli interessi stranieri. Il punto è che la fiducia alla lunga paga, ma bisogna avere il coraggio di buttarsi.

Non pensa che i grandi partiti europei, in vista delle elezioni del 26 maggio, abbiano lasciato questo tema, come tutta l’economia, in secondo piano?

Sono assolutamente d’accordo. Tutti dicono di voler combattere la rabbia, i populismi, i nazionalismi, ma dimenticano che l’origine di tutto ciò sta nel senso di declino economico avvertito dalle classe medie, dai ceti più deboli e dalla periferia rispetto al centro. La prima risposta dovrebbe quindi essere innanzitutto economica. O sul fronte degli investimenti o su quello della condivisione del debito o ancora sulla riassicurazione delle reti di protezione nazionale. L’Europa deve dare il segnale di essere molto più attenta a questi temi sociali.

Il giudizio della Commissione europea sul nostro debito arriverà dopo le elezioni del 26 maggio: sarà in qualche modo influenzato dall’esito del voto?

Io credo che già il fatto che arriverà dopo le elezioni sia segno che probabilmente sarà un giudizio negativo che non si vuole rendere pubblico prima per non influenzare il voto. Del resto, guardando ai dati sul costo del debito e sulla crescita è inutile aspettarsi un giudizio non negativo.

Vista questa situazione, e considerando anche l’immobilismo europeo sulla condivisione del debito o il rilancio della crescita, ritiene che l’Italia vada incontro a mesi difficili?

Senz’altro, perché sappiamo che l’Italia ha bisogno di 35 miliardi, dato che questa potrebbe essere la correzione che ci verrà richiesta. Speriamo di avere delle notizie positive sul fronte della crescita che possano portare delle risorse in più al Paese. A questo punto credo che sia giusta la posizione di Tria, secondo cui se mancano altri tipi di iniziativa alla fine l’aumento dell’Iva diventerà l’unica via percorribile.

Non ci sono altre strade?

Quello che secondo me si dovrebbe fare è intervenire per sbloccare davvero gli investimenti, soprattutto quello finanziati e non cantierati. Poi bisognerebbe insistere sulla lotta all’evasione fiscale, che vale più di 100 miliardi, con l’idea che i proventi vadano a ridurre le tasse. Non però con la flat tax, che è una sorta di capolavoro dei populisti.

Perché capolavoro?

Perché convincere i ceti medi e deboli a sostenere l’opportunità di ridurre le tasse ai ricchi, eliminando la progressività, è un capolavoro. Dovremmo invece pensare a una flat benefit, cioè a ridurre la prima aliquota Irpef del 23%. In questo modo si produrrebbe un beneficio uguale in termini assoluti per tutti i contribuenti e proporzionalmente più alto per i ceti più deboli. Sarebbe quindi una riduzione delle tasse che la maggioranza dei cittadini di questo Paese dovrebbe sostenere.

(Lorenzo Torrisi)