Il nuovo anno è appena iniziato, carico d’incertezze e di segnali negativi, come del resto avevamo visto concludersi lo scorso. Molti i grandi temi d’attualità del  2020, ma quelli che vorrei richiamare oggi sono i due in cima all’agenda del Forum Economico Mondiale di Davos: “La crescente disuguaglianza e l’emergenza climatica”. Personalmente ritengo ce ne sarebbero di più pratici e attinenti al tipo di personalità li riunite, come un sempre più manifesto rallentamento economico globale, associato a un’esuberanza finanziaria che sembrerebbe avere un solo obiettivo: battere qualunque eccesso della stessa natura che si sia già verificato in passato. 



I segnali di questo malessere economico si sprecano, soprattutto a livello statistico. Sono infatti sempre più numerosi quegli indicatori che, almeno in teoria, dovrebbero destare allarmismo. I più classici sono gli indici di borsa, esempio chiaro di tradizionale “termometro rotto” dell’economia, ma quello che vorrei approfondire qui è un altro, uno meno conosciuto: il “Baltic Dry Index” o come lo chiamiamo comunemente noi del settore marittimo, il BDI. Questo indice rappresenta l’andamento del mercato dei noli per le navi porta rinfusa, quindi misura in parte l’andamento dei traffici via mare di tutte le materie prime non liquide, per citare solo le più importanti: minerali, carbone e semenze.



È indubbiamente vero che in passato questo mercato abbia spesso fornito un ottimo indicatore per la tendenza dell’economia. Ad esempio nei primi anni  2000 fu efficiente nel mostrare il boom di crescita che, grazie all’accelerazione dello sviluppo dei Brics e soprattutto della Cina, il mondo s’apprestava a inaugurare. Tuttavia anche questo termometro, purtroppo, si è rivelato spesso altrettanto inefficiente negli anni a seguire, come testimoniato alla perfezione dal suo andamento nell’estate del  2008 fino al momento del crack di Lehman Brothers. Infatti, all’epoca dell’imminente crisi finanziaria, il BDI viaggiava a livelli di record formidabili, mai visti prima e che difficilmente mai rivedremo. Insomma, al pari delle tre regine del rating con Lehman Brothers, quest’indice attestava una bella tripla A a un’economia che si apprestava a un crollo tale da richiamare lo spettro della grande depressione degli anni ’30 del secolo scorso. 



Nel  2016 il BDI sperimentò un altro caso di notevole inefficienza, per quanto opposto. L’economia e sopratrutto la crescita cinese, infatti, appena cominciavano a destare le prime vere preoccupazioni dai tempi dell’ultima recessione, mentre il nostro BDI toccava il fondo. Questa volta non c’era una temporanea crisi del credito da incolpare, e neanche una recessione in effetti, ma vi era solo la tragica realtà dei fondamentali sbilanciati di questo mercato di nicchia sconosciuto ai più. 

Negli ultimi anni questo mercato è risalito sopra i costi per stabilizzarsi a livelli mediocri, ma sostenibili e regalando pure qualche trimestre di ritorni perfino decenti. Questo preambolo era necessario per evidenziare che l’indicatore in questione, al pari di altri simili, può essere tanto utile quanto fuorviante nel fornire indizi sui corsi economici. 

Ora possiamo collegarci al Forum di Davos e le sue simboliche priorità, ma soprattutto la loro interazione con il nostro non sempre affidabile termometro dei traffici di merci secche alla rinfusa via mare. Il  2019 è stato un anno discreto per il BDI, cominciato male, ripresosi bene, per poi chiudere di nuovo male, ma soprattutto ha cominciato molto male quello nuovo. La più logica e scontata assunzione vedrebbe come causa più probabile il preoccupante stato attuale dell’economia globale. Come già spiegato, la Cina è il principale motore di questo mercato e sicuramente continua a rallentare. Ma che sia chiara una cosa: la guerra commerciale con gli Usa c’entra poco con il BDI. Andando a verificare quali sono i traffici di minerale ferroso e carbone di cui il Dragone da due decenni sembra insaziabile, scoprirete che con gli States centrano poco e nulla. Non solo, dovremmo pure poter azzardare con una certa convinzione che la stessa cosa vale per il loro utilizzo, ovvero infrastrutture ed energia, quindi poco rilevanti anche per l’export.

Il rallentamento riflesso sul mercato in questione sembrerebbe più strutturale che figlio delle tensioni geopolitiche, tutt’al più queste non aiutano, ma non ne sono la causa. In questo il nostro termometro parzialmente funziona, misura bene la febbre del gigante asiatico da cui in effetti dipende enormemente la crescita globale. Basta questo a spiegare un BDI che oggi s’avvicina pericolosamente ai record negativi del  2016? Di sicuro la stagionalità unita al capodanno cinese contribuiscono alla debolezza del mercato, ma la vera ragione dietro al minaccioso collasso è un’altra ed è molto “attuale”, come per l’appunto testimoniato per ultimo da Davos: la meravigliosa “Green Economy”. 

Dal primo di gennaio è ufficialmente entrata in vigore una norma imposta dall’International Maritime Organisation, comunemente chiamata Imo, la versione marittima delle Nazioni Unite, che impone alle navi l’utilizzo di un nuovo carburante a basse emissioni. Le conseguenze di questa normativa sono state a dir poco disastrose, avendo dall’oggi al domani più che raddoppiato il costo del bunker, ovvero il carburante delle navi, con conseguente bagno di sangue dell’armamento sottostante all’indice in questione. Tutto questo ha impattato un mercato già in debito d’ossigeno da ben prima di capodanno, complici anche le feste forse. Ma qui abbiamo un indiziato più rilevante, un qualcosa di già visto in concomitanza con la simile debolezza sperimentata nello stesso periodo dell’anno scorso. Infatti, a novembre la Cina ha dovuto imporre un divieto d’importazione del carbone limitato, per fortuna, al solo mese di dicembre. La ragione naturalmente si ricollega alla nuova ricetta miracolosa dell’economia inchinata alla scienza o presunta tale: rispettare limiti d’emissione. 

Tornando sulla nuova normativa, in realtà l’armamento mondiale avrebbe anche avuto qualche anno per prendere delle contromisure, molto costose e di dubbia utilità, installando degli “scrubber” che permettono di continuare a bruciare il carburante tradizionale decisamente più a buon mercato. Questi macchinari funzionano come delle docce lavando i gas di scarico prima che vengano rilasciati nell’atmosfera, ma oltre al salasso per l’installazione, il costo di manutenzione ed energetico addizionale per utilizzarli, pongono anche un problema di smaltimento delle acque di scarto. Grazie al vuoto normativo su tale smaltimento, forse anche per aiutare l’armamento a far fronte a questo già di per sé poco sostenibile adeguamento, la stragrande maggioranza di questi macchinari prevede lo scarico diretto in mare, quindi alla fine le presunte emissioni si riversano nell’ecosistema marino e chissà, magari in parte rievaporano tornando comunque anche nell’atmosfera. Geniale no? Sfortunatamente, o forse no, per questa ragione alcuni grandi porti li hanno già vietati, frustrando quindi importanti investimenti fatti da un’industria che già da anni combatte per restare a galla, ma soprattutto molti altri potrebbero presto fare altrettanto.

Va anche detto che solo una minima parte delle navi porta rinfusa ha montato questi costosi macchinari, per lo più solo società quotate che utilizzano comunque una leva importante per fare fronte all’investimento, ma molti potrebbero seguire il loro esempio se il corrente psicodramma del BDI persistesse qualche mese. Quello che ha frenato gli armatori dal prendere questa rischiosa decisione, oltre alla questione legata al loro potenziale limite d’utilizzo, è dovuta all’incertezza che lo spread tra il costo del nuovo bunker e di quello vecchio si riduca in futuro al punto tale da rendere gli scrubber totalmente inefficienti. Tradotto in modo semplice, se il costo del nuovo carburante scende troppo presto, l’investimento sugli scrubber diventa uno spreco rilevante d’importanti risorse, un debito e una perdita secca. 

Personalmente ritengo che la morale di questa storia sia chiara e forse non è solo collegata al tema dell’emergenza climatica, ma anche e soprattutto a quello della diseguaglianza. Una chiara lezione che una ricetta corretta dovrebbe assicurarsi la sostenibilità economica e quindi sociale mentre ricerca quella ambientale, questo per evitare che i due grandi temi di Davos risultino contrapposti e in aperto conflitto. Qui non si tratta di mettere in dubbio le teorie scientifiche, ma di non ignorare le conseguenze abbastanza prevedibili di presunte soluzioni ecologiche che rischiano di minare un contesto economico già fragile e alle prese con gravi questioni di sostenibilità strutturale del nostro mondo globalizzato. Spero di avervi convinto della pericolosità rappresentata da diagnosi dubbie e conseguenti ricette pericolose a base d’inefficienza, confusione e incertezza, come ben testimoniato dalla depressione creata sul BDI.

In conclusione, per quanto riguarda il nostro “termometro rotto”, forse in realtà funziona ancora anche se in modo diverso rispetto al passato. Quello che cerca di dirci questa volta, oltre che aggiornarci sullo stato di salute della crescita infrastrutturale cinese, non è tanto come girerà l’economia globale da qui a fine anno, ma della concreta minaccia per la stessa che potrebbe venire dalle potenziali azioni legate ad uno dei più attuali e discussi temi dell’agenda politica mondiale, la santificata New Green Economy.