Di qui all’eternità. Il canto del cigno di Mario Draghi si è rivelato un prezioso regalo per l’economia claudicante della zona euro: gli acquisti di asset (banche escluse) nell’ambito del nuovo Quantitative easing non saranno più a termine, ma potranno durare all’infinito, a meno che una ripresa duratura dell’inflazione non segnali la fine dell’emergenza. Ma sarà difficile per i falchi dell’Eurozona imporre la parola fine all’immissione di liquidità. È l’eredità che super Mario lascia al momento di abbandonare la ridotta di Francoforte che, senza la sua determinazione, forse sarebbe capitolata già nel 2012.



Ma adesso? Nessun dubbio che Christine Lagarde affronterà l’incarico di numero uno della seconda banca centrale del pianeta con altrettanta determinazione, forte del sostegno garantito dalla Francia, l’unico socio della Bce che ha numeri e influenza politica in grado di contrastare l’egemonia che, nei fatti, la Germania ha da sempre esercitato sulla Bce, costringendo Draghi a una costante opera di tessitura diplomatica per disporre dell’approvazione di Angela Merkel.



La staffetta, peraltro, capita in un momento cruciale per gli equilibri dell’Eurozona. I banchieri, divisi come non mai (in 6 su 25 hanno votato contro gli stimoli di Draghi) hanno convenuto all’unanimità, seppur con motivazioni diverse, che i margini di azione offerta dalla politica monetaria si sono ormai ridotti al lumicino: i tassi sotto lo zero per una larga fetta delle emissioni dell’Eurozona indicano che l’efficacia delle manovre tradizionali si è ormai esaurita per il noto detto che si può portare un cavallo in riva al fiume perché si abbeveri, ma non si può obbligarlo a bere.



Fuor di metafora, si possono facilitare gli investimenti, ma non si può sconfiggere l’ormai radicata avversione al rischio che sconfina nella stagnazione. A meno che un’iniezione dall’esterno (vedi mano pubblica) non dia il colpo di manovella iniziale.
Ci vuole, insomma, una forte iniezione di fiscal policy, favorita dai tassi bassi, ma che necessita di una congrua base di capitale, perché, con la bizzarra eccezione italiana, nessuno ritiene seriamente che si possa avviare un ciclo di crescita basandosi solo sul debito.

Sarà, forse, questo il prossimo passaggio con l’adozione della Mmt (Modern Monetary Theory), che consiglia l’uso di moneta finché non entri in azione il freno dell’inflazione, ma per ora le misure estreme non sono contemplate: l’helicopter money, cioè i quattrini in arrivo dal cielo per liberare la macchina dell’economia dalla palude della depressione, non è ancora decollato. E forse non si alzerà in volo mai. Ma se non si ricorre, o si dubita dell’efficacia degli strumenti di politica monetaria, non resta che ricorrere alla politica fiscale.

Per l’Italia, gravata da un debito pubblico record, i margini sono molto stretti, quasi inesistenti. Ma, in Europa, Germania e in misura minore Olanda e altri Paesi del Nord potrebbero avviare una politica espansiva in casa e fuori che, peraltro, è senz’altro nel loro interesse a lungo termine, visto lo stato non eccellente (spesso malandato) delle infrastrutture, frenate dalla sindrome di non far debiti.

Riuscirà madame Lagarde a convincere i tedeschi, magari fornendo loro garanzie e poteri di intervento sui nuovi investimenti, in patria e non? Lecito dubitarne, anche se una quota crescente di tedeschi chiede di superare l’attuale modello di sviluppo basato sull’export.

Ma, nota Philipp Stevens sul Financial Times, la politica tedesca, ricca com’è di vincoli istituzionali e governata da un’asse ostile alle novità, è pronta a cambiar rotta “solo quando è troppo tardi”, come abbiamo visto in occasione della crisi greca.
A Christine Lagarde l’onere di mettere in moto la macchina del tempo che Draghi ha fissato di qui all’eternità.