Il coronavirus è destinato a essere ancora a lungo sulle prime pagine dei giornali per le sue devastanti implicazioni epidemiologiche. Meno si tratta dei suoi aspetti politici ed economici, principalmente sui giornali italiani.
È la terza grande epidemia in meno di vent’anni che nasce in Cina e mette a rischio il mondo. Non è solamente un caso che il bacillo abbia origine in quello che una volta era il Celeste Impero e oggi la seconda economia mondiale, caratterizzata però da caratteristiche modernissime e da tecnologie avanzate accanto a dimensioni estremamente primitive (come la promiscuità tra uomini, donne e animali o la ricerca di proteine, per l’alimentazione di popolazioni molto povere, anche in carni di pipistrelli).
Ormai si sa che le prime avvisaglie del coronavirus a Wuhan datano dai di dicembre e già a metà dello stesso mese la professione medica della città tentava di dare l’allarme. La reazione di Pechino è stata repressiva: bavaglio alla stampa e ai medici, alcuni incarcerati perché avrebbero diffuso “notizie false” al fine di screditare il Paese. Il medico che per primo ha lanciato l’allarme è stato contagiato dal virus e ne è morto. Quando ci sono stati i primi decessi (tra cui alcuni di stranieri), le autorità hanno diramato comunicati per sostenere che si trattava di un “virus patriottico” che non contagiava i cinesi. Solo il 31 dicembre, Pechino ha informato l’Organizzazione mondiale della sanità, ma per buona parte di gennaio ha continuato a tenere nel buio più nero i concittadini cinesi sino a quando il 31 gennaio, letteralmente travolto dagli avvenimenti, il Governo ha posto in quarantena Wuhan; nel contempo diversi milioni di persone erano entrati e usciti dalla città senza prendere precauzioni.
In breve, per settimane Pechino ha dato la priorità a celare l’esistenza del virus invece che a misure per evitare l’epidemia. L’autocrazia che regna nella Città Proibita aveva obiettivi chiari di politica interna e internazionale: celare il coronavirus per tentare di evitare nuove tensioni e rivolte interne (pare ce ne siano in varie Province) e stringere rapporti internazionali vantaggiosi. Oggi stesso poco o nulla è dato sapere su quanto il virus sia presente non solo nella Provincia di Hubei di cui Wuhan (città di 11 milioni di abitanti, ma che da fotografie da aerei pare deserta) è la capitale. È probabile che si sia diffuso in altre Province della Cina centrale, ma che si faccia di tutto per tenerlo celato.
Dallo Straits Times di Singapore e dall’ultimo fascicolo di The Economist si apprende che le autorità di Pechino hanno trovato un altro modo per l’uso politico del coronavirus: la battaglia contro il virus è diventata strumento di mobilitazione contro quei sempre più vasti segmenti della popolazione e intere etnie diventate, con lo sviluppo economico, più insofferenti al giogo dell’autocrazia. Si sta tentando – scrive The Economist – una mobilitazione di massa contro i “nemici del popolo cinesi e stranieri” a cui addebitare le responsabilità del coronavirus e del suo diffondersi. Questi aspetti, non so quanto trattati nelle relazioni della nostra Ambasciata a Pechino, dovrebbe fare riflettere prima di riaprire i voli con la Cina e di cercare di dare attuazione al Memorandum of Understanding firmato con tanta pompa nel marzo 2019. Anzi, l’Italia dovrebbe promuovere, in seno all’Unione europea, un’azione comune per indurre la Cina, proprio a causa del coronavirus, a una maggiore diffusione e trasparenza delle informazioni e, se possibile, passi verso il pluralismo politico, unici antidoti nei confronti se non del nascere, almeno del diffondersi di virus del genere.
A questi aspetti puramente politici, si aggiungono quelli economici. In primo luogo, nella stessa Cina. Le statistiche della Repubblica Popolare sono notoriamente inaffidabili. Gli uffici delle agenzie internazionali con sede a Pechino ritengono che a causa del coronavirus il tasso di crescita del Paese nel 2020 non supererà il 4%, un brusco rallentamento rispetto al passato e tale da accentuare le tensioni politiche interne. Il Governo è fortemente tentato di reagire con una manovra monetaria stimolatrice. Già il 3 febbraio, la Banca centrale ha effettuato una prima iniezione di liquidità che non sembra però avere avuto gli effetti desiderati. Stanno crescendo incagli e sofferenze bancarie. Le imprese hanno difficoltà, tanto che l’aumento dei contributi per la previdenza sociale che sarebbe dovuto scattare il primo aprile è stato rimandato sine die. Stanno emergendo sempre maggiori carenze di beni essenziali (da posti letto in ospedali a mascherine e a garza) per combattere il coronavirus.
Dato il peso che ora la Cina assume nell’economia mondiale, la brusca frenata del Paese non potrà non avere effetti sull’economia internazionale, soprattutto su quelle aree la cui politica di crescita è maggiormente orientata alle esportazioni, come, ad esempio, l’Unione europea. Da settimane, i modelli econometrici forniscono simulazioni sulle implicazioni economiche del coronavirus sul Vecchio Continente.
Non sono apparse stime invece dei rischi del coronavirus sul continente le cui strutture sanitarie sono meno attrezzate ad affrontarlo e che almeno potenzialmente potrebbe essere il maggiore vettore di contagio verso l’Europa: l’Africa a sud del Sahara. È un continente dove da anni la Cina è particolarmente attiva sia nel costruire la parte meridionale della Via della Seta, sia nell’accaparrarsi terreni agricoli e zone minerarie, essenziali per il proprio sviluppo. Le stime sul numero dei cinesi che risiedono in Africa a sud del Sahara variano tra i 200.000 e i due milioni; migliaia si sono recati in Cina per il Capodanno lunare, proprio i giorni in cui, anche se malvolentieri, il Governo di Pechino dava le prime notizie sul coronavirus. I viaggi aerei sono aumentati esponenzialmente negli ultimi anni: solo Ethiopian Airlines ha un traffico con la Cina di 1.500 passeggeri al giorno. 81.000 studenti africani sono in Cina; 4.600 a Wuhan. Non ci sono restrizioni ai viaggi da e con la Cina, anche l’Organizzazione mondiale della sanità si è rivolta ai 13 Stati africani che hanno rapporti più stretti con quello che fu il Celeste Impero affinché istituiscano un minimo di verifiche.
Si è mossa la Bill Gates Foundation che il 5 febbraio ha deliberato 100 milioni di dollari per i Paesi africani con progetti mirati al virus. Per limitare il contagio in Europa sarebbe opportuno, quanto meno, effettuare un check sanitario a chi arriva dall’Africa.