Nella manovra italiana 2020 – ancora scritta sulle sabbie mobili della “lotta all’evasione” da 7 miliardi – alcune centinaia saranno dunque conteggiati alla voce webtax. La digital tax inizialmente prevista già dal Governo giallo-verde per l’anno in corso e poi non attivata, proiettava incassi per almeno 600 milioni per il prossimo esercizio. L’esecutivo giallorosso ha ora deciso di riprovarci – sulla falsariga dei prelievi già imposti da Paese Ue come Francia e Spagna – mentre l’Ocse accelera sulla proposta di un meccanismo internazionale condiviso. La tassazione dei giganti “Gafa” (Google, Amazon, Facebook, Apple) e dei loro molti fratelli e cugini minori in rapida crescita resta comunque un problema geo-economico di primo livello e in pari misura dibattuto.
La Ue – per mano della “zarina” dell’Antitrust, Margrethe Vestager – ha messo nel mirino Apple con la minaccia di una multa record da 13 miliardi di euro per accordi fiscali anomali in Irlanda. Il gigante dell’iPhone ha già transato separatamente con la Francia dieci anni di tasse eluse per 500 milioni. Il britannico Guardian, all’inizio di quest’anno, ha denunciato 23 miliardi di profitti spostati (peraltro legalmente) da Google da holding olandesi a “paradisi” caraibici. In Italia la Procura di Milano ha messo sotto indagine tutte e quattro le “Gafa” e ora anche Netflix. Ma già nel 2017 un maxi-accordo fra trenta multinazionali (fra cui le Big Four della Silicon Valley) e il Fisco italiano con l’intervento della Guardia di Finanza e della stessa magistratura, ha portato a una transazione da 1,8 miliardi. Non mancano tuttavia voci dissonanti.
Uno studio del think tank francese Institut Molinari, pubblicato lo scorso marzo, è critico anzitutto con le zelo fiscal-digitale del presidente Emmanuel Macron. Secondo i calcoli dell’istituto su 780 miliardi di dollari di imponibile realizzato dalle “Gafa” negli ultimi dieci anni, ne sarebbero stati prelevati 188, con un corporate tax rate del 24%, inferiore di soli due punti a quello medio Ue del periodo. Ma oltre alle discordanze sulle cifre e all’ordine sparso (basti pensare ai tanti “paradisi interni” all’Ue, dall’Irlanda all’Olanda al Lussemburgo) l’approccio europeo suscita dubbi e incertezze non per le tecnicalità, ma per l’impostazione politico-economica a monte.
L’uso dell’arma fiscale (e in particolare del suo profilo giudiziario, sanzionatorio ex post) appare infatti finalizzato a un’affannata battaglia di retroguardia: il tentativo tardivo di contrastare l’urto epocale della globalizzazione tecnologica proveniente dagli Usa. Ma la guerra industriale è già stata persa dall’Azienda-Europa, che – a differenza di Airbus contro Boeing – non ha saputo esprimere nessuna iniziativa o strategia propria nel digitale. Il problema di fondo, per l’Ue, non sono le tasse non incassate o da incassare in futuro, ancorché sia legittimo pretenderne il corretto pagamento. Ma se anche nel 2020 un fisco come quello italiano incassasse anche un paio di miliardi dalla webtax cambierebbe qualcosa nei parametri finanziari del Paese?
Le Gafa non sono Al Capone: non sono gangster e non verranno comunque fermate dagli agenti delle tasse come il leggendario boss di Chicago novant’anni fa. Sono invece i gestori di piattaforme ormai decisive per il lavoro di milioni di imprese e per il funzionamento dei servizi a decine di milioni di famiglie. Se hanno raggiunto posizioni di monopolio preoccupante (hanno già messo sotto pressione “disruptiva” l’industria dell’informazione tradizionale e ora stanno aggredendo il settore bancario) criminalizzarle ora come grandi evasori globali e apolidi servirà a poco: forse neppure a dare legittimità politica alla caccia a piccoli o grandi evasori locali.
Analogamente, negli Stati Uniti la maggioranza degli osservatori è scettica sulla foga anti-Gafa comune a molti candidati democrat alle presidenziali 2020. Tre anni fa, appena eletto Donald Trump alla Casa Bianca, il patron di Facebook Zuckerberg lasciò subito correre la voce di una sua precoce discesa in campo per raccogliere le truppe democratiche sconfitte. In realtà – dopo otto anni di “paradiso terrestre” garantito dal presidente democratico Barack Obama sia sul versante fiscale che su quello dei controlli di legalità su privacy e fake news – neppure il presidente-businessman Trump si è rivelato un nemico reale di Gafa & C: e difficilmente lo diventerà nell’anno di campagna presidenziale.
La riforma fiscale – giro di boa del primo mandato di Trump – ha abbassato drasticamente la corporate tax e ha prospettato una strategia di “concordati” non strettamente connotati in termini fiscali. Il simbolo di un tentativo di appeasement ampio è stata la gara per il secondo headquarter di Amazon: vinta da New York, dove il colosso di Jeff Bezos avrebbe realizzato sull’East River una città tecnologica per ospitare 45mila dipendenti. Da un lato Amazon aveva pianificato investimenti multimiliardari a lungo termine, dall’altro lato la municipalità e lo Stato di New York (a guida dem) avevano studiato sgravi fiscali ad hoc. Chi ha rotto le uova nel paniere è stata Alexandra Ocasio-Cortes, la 29enne eletta al Congresso a Brooklyn nell’ultimo mid-term.
È stata l’astro nascente dei democratici radical-populisti a premere in modo decisivo sulle comunità locali per un no ideologico – “con Amazon non si tratta” – che ha colto in contropiede perfino il sindaco Di Blasio e appannato la stella liberal di Bezos. E sul tavolo sono rimasti moltiplicati tutti i dilemmi politici, economici e sociali del caso: anche sui “Gafa” ha ragione il neo-socialismo fiscale di Bernie Sanders oppure l’approccio America First del presidente in carica che Amazon & C vuole una transazione strategica in termini di sviluppo? Meglio le tasse di ieri per il bilancio di oggi oppure investimenti oggi per posti di lavoro domani? Nel suo piccolo, anche un Paese come l’Italia avrebbe il diritto-dovere di porsi qualche domanda?