Il salvataggio di Credit Suisse attraverso il take over di Ubs è maturato in una cornice di sostanziale sovranismo elvetico. Non ha sorpreso in un Paese storicamente ed emblematicamente neutrale, cioè costituzionalmente geloso dei propri destini.
Ma non è parso certamente banale che il clou (almeno finora) dell’ennesima crisi finanziaria globale si sia chiuso (almeno per ora) con una conferenza stampa presieduta dal ministro delle Finanze di Berna e dal Governatore della Banca nazionale svizzera.
Ai lati, diversamente accigliati, il Presidente del Credit Suisse, azzerato dopo 167 anni, e quello di Ubs, che avrebbe volentieri fatto a meno di incorporare il concorrente, dirimpettaio nel centro di Zurigo (a proposito: giusto 25 anni fa, dopo la prima ondata della globalizzazione finanziaria, Ubs aveva già dovuto farsi carico della terza “grande sorella” elvetica, Sbs, fatta a pezzi da Wall Street da un improvvido tentativo di sbarco).
La premessa forse più importante del “bail” sovranista svizzero è stato il disimpegno della Banca nazionale dell’Arabia Saudita, primo azionista di Credit Suisse col 9,9% (affiancato da un grande fondo connazionale, Olyan, e da uno dei fondi sovrani del Qatar, entrambi con il 5% circa). Quello dell’ipotetica ricapitalizzazione del Cs è tuttavia un passaggio rimasto parzialmente nell’ombra. I media internazionali hanno “narrato” per lo più un rifiuto di Ryad, in una prospettiva geopolitica. Il principe reggente Mohammed bin Salman avrebbe evitato di aiutare l’Occidente colpito da una grave crisi bancaria in una fase planetaria delicatissima. Solo pochi giorni fa l’Arabia Saudita ha rimarcato il suo “non allineamento” ristabilendo platealmente le relazioni diplomatiche con l’Iran, in un summit ospitato a Pechino dal leader cinese Xi.
Questo ricordato e in assenza di certezze ufficiali, resta fondato l’interrogativo se il mancato intervento saudita a Zurigo non sia stato invece l’esito di un’opzione “occidentale”, cementata fra Berna e Washington. Un rafforzamento (tendenzialmente maggioritario) dell’Arabia Saudita in Cs avrebbe portato in campo neutro/ostile un’importante hub finanziario “occidentale” e riverberato indubbi segnali di debolezza geopolitica. L’operazione avrebbe necessitato dell’autorizzazione formale delle autorità svizzere: e non è noto se queste abbiano mai effettivamente aperto a “Mbs”. Non è anzi improbabile che l’aggregazione con Ubs sia stata forzata anche per “ri-elveticizzare” Cs: in sintonia con un Paese che si sta interrogando perfino sull’opportunità di un avvicinamento epocale alla Nato.
Nel frattempo i grandi azionisti del Golfo sono stati sicuramente penalizzati dal collasso di Cs, ma non al 100%. La fusione (con il concambio in azioni Ubs) ha imposto a loro e agli altri investitori nel titolo perdite consistenti: la Saudi National Bank l’ha già quantificata per sé in un miliardo di dollari. Ma il valore delle quote proprietarie (al contrario di quanto avvenuto per la Silicon Valley Bank) non è stato azzerato, anzi: nel giro di un paio d’ore, domenica sera, l’offerta Ubs è lievitata da 1 a 3 miliardi di dollari. A pagare fino all’ultimo franco saranno invece altri, in quello che si sta rivelando il profilo più rovente del “deal” Ubs-Cs. Saranno gli investitori nei 17 miliardi di dollari di obbligazioni subordinate Cs: queste sì completamente cancellate, con una stridente discriminazione rispetto agli standard della vigilanza bancaria corrente (“di mercato”). In questo quadro i titoli di debito “quasi-capitale” hanno un rischio (e quindi una protezione) assimilabile alle azioni, ma non dovrebbero subire un trattamento peggiore dei “proprietari” della società salvata. Tanto più che il sostanziale salvataggio di Cs proteggerà interamente i depositanti: che in caso di fallimento sarebbero stati garantiti solo fino a 100mila franchi svizzeri. Chi sono gli sfortunati possessori delle obbligazioni Cs destinati a “pagare per tutti”?
Probabilmente sono – alla fine delle catene – milioni di sottoscrittori di fondi o gestioni patrimoniali di migliaia di asset manager internazionali: esattamente come accadde che i mutui subprime finissero cartolarizzati nei portafogli di fondi pensione europei, spesso a insaputa dei sottoscrittori, se non addirittura dei manager. Di certo, i bond di Cs sono stati bruciati in un doppio falò sovranista: quello acceso “al dettaglio” (per proteggere centinaia di migliaia di depositanti svizzeri, oltreché di decine di migliaia di imprese e dipendenti locali); e quello “all’ingrosso”, come “male minore” per la (residua) reputazione della Svizzera come cassaforte e piattaforma di gestione “offshore” di capitali di ogni provenienza.
A completare il quadro di un salvataggio sovranista-ma-non-del-tutto non è mancato un intermezzo significativo nel weekend più lungo per le banche svizzere. Nelle ore più incerte e concitate (fra venerdì e sabato) un pesante ballon d’essai mediatico ha attraversato l’Atlantico: è giunto (o è stato fatto giungere) da BlackRock, di fatto il “fondo sovrano” degli Stati Uniti. Nel portafoglio del quasi leggendario Larry Fink (parecchio pessimista fin da quando la crisi geopolitica è iniziata) c’era anche una quota-boa del 4% di Credit Suisse. Da qui è nata quella che è sembrata più di una voce e che peraltro si è dissolta nel giro di poche ore: con una significativa precisazione ufficiale di Blackrock, non prima che il piano Ubs risultasse definitivamente impostato. Non pochi osservatori hanno creduto a una valenza allo stesso tempo finanziaria e geopolitica.
Da un lato, uno dei giganti del wealth management globale (8.600 miliardi di ricchezza amministrata) era certamente preoccupato che nel tessuto già sbrindellato dei mercati finanziari si creasse un grosso strappo: corrispondente a una banca di cui Blackrock era grande azionista (il più importante fra gli euramericani). In secondo luogo, un investitore finanziario molto geopolitico (in questi stessi giorni ha lanciato un’offerta per la rete Tim, con i suoi strategici cavi mediterranei) ha segnalato quanto fosse elevata l’allerta su Cs fra Washington e Wall Street: con il sistema bancario americano colpito a catena nelle sue cosiddette “banche regionali” e nei giorni non banali della visita di Xi a Mosca. “Failure was not an option”: il Credit Suisse era troppo importante per fallire. Se la Svizzera non fosse riuscita a tappare la falla, sarebbero arrivati “i nostri”, a stelle e strisce. Almeno, ancora, per questa volta.
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