La dinamica del debito pubblico ha avuto due fattori di crescita: l’uso della spesa corrente al posto degli investimenti (utilizzo sempre più frequente da parte di politici in cerca di consenso a breve); un’azione della finanza che ha assunto sempre più un’azione di destabilizzazione legata a operazioni esterne al debito dolose, come dimostrato dai processi avviati dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti dal 2015 in poi.
Il debito pubblico italiano fino a metà degli anni Settanta aveva un andamento virtuoso e oscillava tra il 32 e il 35% del Prodotto interno lordo. Il rapporto consente un confronto indipendentemente dalle variazioni del valore della moneta. La sua relativa stabilità è stata scossa nel decennio indicato e sempre più in quello successivo. Graficamente si vede un’impennata del debito che non dovuta a fenomeni interni al Paese, ma ad un’azione esterna imposta arbitrariamente dall’introduzione del dollaro come unica moneta di scambio nelle transazioni internazionali.
Nel 1944 erano state fissate a Bretton Woods condizioni che consentissero una stabilità monetaria legando la stampa della carta moneta a un valore reale sottostante: l’oro. La moneta di riferimento a cui si dovevano legare le altre era il dollaro, che poteva essere stampato in un rapporto di 36 dollari ogni oncia d’oro. Fino al 1971 la stabilità monetaria ha favorito uno sviluppo economico senza precedenti, ma a partire dalla metà degli anni Sessanta negli Stati Uniti la guerra del Vietnam ha cominciato ad assorbire una crescente fabbisogno di risorse monetarie e le proteste studentesche hanno intaccato gli equilibri interni del Paese.
Progressivamente questi fattori hanno cominciato a erodere le quantità di oro del Paese a fronte, però, di un crescente fabbisogno di stampa di moneta, sempre meno sostenuta dalla quantità aurea rispettosa dei vincoli posti dagli accordi di Bretton Woods. Non avendo più oro in quantità tale da sopportare il fabbisogno monetario, il presidente Nixon e il governatore della Fed Volcker decisero nel 1971 di rompere unilateralmente il trattato. In questo modo il dollaro sganciato dal sottostante rapporto con l’oro poteva essere stampato all’infinito senza limiti di sorta, creando un fittizio valore intrinseco del dollaro, che diventava però la moneta di riferimento per tutte le transazioni dei Paesi occidentali, con l’effetto di svalutazione delle monete degli Stati a maggiore dipendenza dalle esportazioni come il nostro, che infatti ha visto una crescita dell’inflazione correlata alla svalutazione della lira. L’evidenza del cambiamento sociale ed economico è rappresentato dai seguenti grafici che mostrano come nel secolo scorso il punto più basso della disuguaglianza coincida esattamente con il punto più alto della curva che indica l’andamento della coesione sociale.
In pratica, prima del 1971 la maggiore uguaglianza ottenuta con la redistribuzione dei redditi aumentava la tenuta relazionale della società, ovvero accresceva il capitale sociale diminuendo le conflittualità, la sperimentazione della solidarietà evidenziava la tensione al bene comune, si sviluppava una vera e propria cultura della solidarietà alimentata dalla forma educativa più significativa per la società, cioè l’esempio: nasceva l’American dream. Dopo il 1971, invece, all’aumentare della disuguaglianza corrispondeva un livello crescente di conflittualità e di aggressività reciproca. Un trend che, cominciato in quegli anni, si è sviluppato in modo sempre più vistoso per giungere all’attuale livello di rischio sociale internazionale.
I grafici seguenti mostrano come la scissione della stampa della carta moneta da un sottostante abbia dato una svolta globale al mondo occidentale. Così la superiorità politica ma anche militare, elemento di protezione dalla Guerra fredda, degli Stati Uniti ha consentito loro di scaricare su tutti i Paesi occidentali il proprio debito esercitando un signoraggio del dollaro accettato per i motivi sopra indicati. La storia dovrebbe essere riscritta, ma nessuno ha il coraggio di farlo, scegliendo un comportamento ipocrita e di servilismo suicida. La storia ha i suoi tempi e presenta sempre il conto, così quell’orizzonte di dominio incontrastato che si è creduto fatuamente non finisse mai trova ora la sua nemesi con il crollo sociale, economico e finanziario del Paese. I seguenti grafici mostrano il cambio di paradigma della storia.
L’Italia subisce un’ondata inflattiva esterna destabilizzante con un rapporto tra dollaro e lira che passa in modo del tutto arbitrario da 640 lire per dollaro nel 1973 a 2.400 lire per dollaro nel 1983. In soli dieci anni, l’inflazione passa dal 4% al 24% e il prezzo del petrolio da 4 a 40 dollari al barile, fatto che, unitamente alla svalutazione della moneta indotta dalla manovra Usa, crea un crescita del prezzo da 2.600 lire per barile a 92.000 lire sempre per barile.
Ci viene messa la corda al collo, ma possiamo solo stare attenti a non farci strangolare dal nostro alleato e amico. Kissinger, che era l’ideatore, lo definiva “il riciclaggio del petrodollaro”. La manovra, che di fatto è stata un embargo finanziario per i Paesi alleati diventati sudditi, è stata generata dalla necessità da parte degli Stati Uniti di creare la domanda di dollari per evitare un’iperinflazione simile a quella della Germania del 1933: la creazione del petrodollaro e del sistema Swift, entrambi nel 1973, obbligavano tutti i Paesi occidentali a comperare dollari per gli acquisti esteri. Messi con le spalle al muro abbiamo dovuto subire un’azione palesemente dolosa che ha aumentato il debito e gli interessi e da allora siamo sempre stati in ostaggio della finanza, sempre più staccata dal reale e usata come arma non convenzionale, funzionale a destabilizzare i Paesi e sottometterli a interessi esterni.
Il crollo del Muro di Berlino ha segnato una svolta decisiva aprendo la strada alla finanza da rapina. Fino ad allora aveva tenuto il sistema centrato sul Glass-Steagall Act che normava la finanza mettendola al servizio dell’economia reale. Dopo tutto è diventato finanza uccidendo l’economia reale e preparando la bancarotta attuale. L’Accademia si sposa alla finanza e puntualmente nel 1990, appena un anno dopo la caduta del Muro, assegna il primo premio Nobel per l’economia a Markovitz con Miller e Sharpe per “i contributi pionieristici nell’ambito dell’economia finanziaria”: la finanza veniva ammantata dall’Accademia come verità incontrovertibile; la strada era aperta. Gli anni Novanta, infatti, sono la preparazione per il dominio attuale: il decennio rivelò il potere di una finanza non controllata, in grado di sovvertire i mercati, ma anche di influire sulle scelte politiche dei singoli Stati e determinarle in funzione di interessi sovranazionali. Tutto sembra diventare un gioco senza avversari.
(1 – continua)
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