Tra le nubi che si accumulano sulla economia italiana ce n’è una più nera di tutte le altre, ma che finora è sfuggita all’attenzione politico-mediatica: è la nube della disoccupazione. L’economia ristagna e non crea abbastanza posti di lavoro, mentre s’accumulano le vertenze aziendali ereditate dal passato e irrisolte, ci sono da mettere in conto le conseguenze della ristrutturazione che attraversa non solo le imprese manifatturiere, ma anche i servizi, più angosciose vicende come l’Ilva di Taranto o il tormentone Alitalia. Il rischio è che il 2020 diventi un anno davvero terribile per il mondo del lavoro.
La disoccupazione sta diventando la priorità numero uno, dovrebbe esserlo anche per la politica economica e sociale, anzi per la politica tout court; invece il governo e l’opposizione non ne parlano. Altro che microtasse, altro che auto aziendali, assorbenti, plastiche, amenità, quisquilie e pinzillacchere varie, secondo alcune stime sindacali, rilanciate ieri da Milano Finanza, sono in pericolo 250 mila posti di lavoro esistenti e più che mai pericolanti.
Nel conto naturalmente entra l’acciaio e non solo l’Ilva anche se a Taranto si recita la parte principale del dramma: 10.700 sono i dipendenti diretti, ma con l’indotto si arriva a 20 mila lavoratori. Ammesso che l’acciaieria non chiuda, la bassa congiuntura siderurgica non consentirà di far lavorare tutti, e la cassa integrazione straordinaria peserà sulle casse dello Stato, cioè nelle tasse dei contribuenti. Le cose non vanno bene nemmeno per gli altri produttori, anche se per ora nessuno ha suonato il campanello d’allarme. Quanto ad Alitalia, ammesso che venga salvata, il fatto che siano coinvolte le Ferrovie e la Cdp mostra che i denari pubblici sono comunque in gioco. In ogni caso, è difficile che la nuova società possa confermare gli attuali posti di lavoro: per Delta gli esuberi sono 2.800, per Lufthansa 3.000. Ci sono poi i 160 tavoli di crisi aperti nei ministeri del Lavoro e dello Sviluppo, le vicende impossibili come quella della Whirlpool di Napoli. E così via.
A tutto questo s’aggiunge l’ondata di riconversione digitale che s’abbatte sui servizi a cominciare da quelli bancari: le principali nove banche hanno già tagliato 14 mila posti di lavoro, ma dovrebbero uscire altri 16 mila. Tim si è sbarazzata di 1.700 dipendenti, ma ce ne sono altri 5.000 in uscita l’anno prossimo. L’elenco potrebbe continuare, sarebbe drammatico, anche se noioso. Ma già così è un’emergenza nazionale.
Il Governo giallo-verde e adesso quello giallo-rosso hanno affrontato la questione occupazionale dal punto di vista ideologico e tutt’al più istituzionale: posto fisso oppure occupazione precaria, decreto dignità, articolo 18, reddito di cittadinanza, e via di questo passo. Ma creare nuovi posti di lavoro per rimpiazzare quelli che inevitabilmente saranno consumati dalla riconversione digitale? Anche su questo valanghe di chiacchiere, qualche studio interessante e nessuna vera decisione. Lo stesso vale per la componente congiunturale dell’occupazione.
Sappiamo bene, l’Istat pubblica ogni mese le sue statistiche, che la produzione e di conseguenza il Pil hanno cominciato a rallentare dalla primavera dello scorso anno con una brusca frenata nell’autunno anche per colpa della crisi dello spread e un continuo scivolamento verso il basso per tutto il 2019 anche in conseguenza della stagnazione tedesca. Questo è da oltre un anno sotto gli occhi di tutti e di ben due governi. Siccome il presidente del consiglio è rimasto sempre lo stesso, Giuseppe Conte lo sa, ne è testimone e garante. Ma chi ha fatto qualcosa per mettere l’occupazione al centro della politica (non solo di quella fiscale)? Domanda retorica con risposta negativa.
Intanto lo spread torna a salire. Non siamo certo ai 300 punti raggiunti l’anno scorso, ma la sicurezza mostrata dal ministro dell’Economia sembra fuor di luogo. Roberto Gualtieri ha detto e scritto che i conti pubblici per il prossimo anno sono sotto controllo anche grazie al risparmio sul costo del debito pubblico. Luigi Di Maio ha parlato di “tesoretto dello spread”. Potremmo dire che ha venduto la pelle dell’orso un po’ troppo in anticipo. L’orso non è stato ucciso, al contrario, ha affilato di nuovo i suoi artigli.
Non c’è nessun tesoretto. È vero, un calo dell’un per cento del tasso d’interesse medio sui titoli di stato potrebbe far risparmiare due miliardi il primo anno e 5 miliardi il secondo anno. Ma questa riduzione non è affatto garantita nemmeno per tutto il 2020. Una parte delle stime sul deficit e sulla copertura delle misure decise resta aleatoria, come ha notato l’Unione europea. Lo è ancor di più se si considera l’effetto della nuova massa di disoccupati che per ora sono una minaccia, ma che può diventare realtà se le cose non cambiano in meglio. E, senza voler fare i soliti gufi, sembra proprio che sia così.