Sembra lontanissima l’estate del 2006, ma sui media italiani campeggiavano gli stessi nomi di oggi: Autostrade e Telecom (come si chiamava ancora l’odierna Tim). Con la presidenza del Consiglio attivamente impegnata nelle strategie dei due grandi gestori nazionali di reti, per quanto privatizzati ormai da una decina d’anni.
Il Premier era peraltro Romano Prodi: lo stesso che dopo la prima vittoria come leader del centrosinistra aveva assegnato Autostrade dall’Iri alla famiglia Benetton, nei fatti a trattativa diretta. Al vertice della catena di comando incentrata sul ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, e il suo direttore generale Mario Draghi, Prodi-1 aveva condotto in porto anche l’Opv di Telecom: inizialmente presidiata da un “nocciolino duro” capitanato dalla famiglia Agnelli.
Tornato a palazzo Chigi nel 2006, Prodi si trovò subito a fare i conti con la volontà dei Benetton di fondere Autostrade con il gestore spagnolo Abertis. Furono il ministro del Tesoro, Tommaso Padoa Schioppa, e quello per le Infrastrutture, Antonio Di Pietro, a farsi riconoscere dal Consiglio di Stato un potere autorizzativo, applicandolo poi immediatamente per bloccare l’operazione: essa si presentava “non compatibile e coerente con le finalità del rapporto di concessione, né con le clausole poste nel processo di privatizzazione”. La procedura fece arricciare qualche naso fra i giuristi: lo Stato si era fatto riassegnare in corsa dai magistrati amministrativi una sorta di golden share “ad aziendam”. Sul piano politico fu invece evidente l’imbarazzo (tardivo) di Prodi nel vedere un player infrastrutturale come Autostrade oggetto di una vendita sostanzialmente speculativa all’estero da parte di una famiglia scelta dieci anni prima in quanto campione di un nuovo capitalismo “democratico” nazionale. Edizione Holding rimase quindi al timone della holding Atlantia, che nel 2018 perfezionò un’offerta d’acquisto sulla stessa Abertis, in tandem con la spagnola Acs.
Nelle stesse settimane in cui l’operazione Autostrade-Abertis veniva bloccata, Prodi ebbe anche un primo contatto con Marco Tronchetti Provera. Pirelli era già da tempo succeduta nel controllo di Telecom alla “razza padana” autrice nel 1999 della “madre di tutte le Opa”: che aveva strappato Telecom al “nocciolino Agnelli”, ma non aveva poi saputo gestire i notevoli azzardi finanziari della scalata a leva. Cinque anni dopo anche Tronchetti accarezzava uno shake-up strategico-finanziario.
I contenuti del piano e lo sviluppo dei primi colloqui riservati fra Prodi e Tronchetti furono al centro di una polemica violenta fra i due: in seguito alla quale il patron della Pirelli si dimise dalla presidenza di Telecom, preparando l’uscita dall’azionariato. In estrema sintesi, Pirelli guardava comunque alla trasformazione di Telecom in una “media company” attraverso un’alleanza con Sky Italia. Il tycoon Rupert Murdoch sarebbe divenuto azionista del colosso italiano. Il progetto fu bocciato da Prodi: chiaramente preoccupato dalla nascita di un gigante integrato fra media e tlc. E questo con l’intervento diretto di un soggetto non europeo com NewsCorp, in rapporti con Mediaset, di proprietà del capo dell’opposizione Silvio Berlusconi.
Anche in seguito alle polemiche levatesi contro l’intromissione del Governo di centrosinistra nelle strategie di una società interamente privatizzata, a largo capitale quotato in Borsa, Prodi tentò un superamento del semplice “no” a Murdoch. Angelo Rovati, consigliere personale del Premier, preparò un piano che avrebbe scorporato la rete Telecom ponendola sotto il controllo della Cassa depositi e prestiti. Neppure quest’ipotesi riuscì tuttavia a maturare fra politica e mercato. L’esito finale del passaggio fu quindi l’uscita di Pirelli dal nucleo di controllo di Telecom e la nascita della holding Telco fra Mediobanca, Generali, Intesa Sanpaolo, Edizione (Benetton) e da Telefonica de Espana. Fu l’inizio di una lunga stasi: che ancora si protrae sul piano industriale. Su quello finanziario continua invece lo stallo del tentativo di scalata da parte della francese Vivendi (gruppo Bolloré), fermata dall’ingresso in minoranza della Cdp, deciso dal Governo Gentiloni nei giorni della sconfitta elettorale del marzo 2018.
Nell’ultimo mese, il Premier Giuseppe Conte ha imposto in via verbale ai vertici di Atlantia la cessione forzata di Aspi (il gestore concessionario) a una nuova compagine azionaria capeggiata da Cdp. Questo sotto la minaccia della revoca della concessione, peraltro in assenza di qualsiasi pronuncia giudiziaria sul disastro di Genova. I negoziati fra Atlantia, Edizione Holding, palazzo Chigi e Cdp sono tuttavia a un punto morto: mentre si fanno più pressanti le reazioni critiche degli investitori internazionali in Aspi e nella holding. Edizione, nelle ultime ore, ha così ventilato l’offerta in blocco di Aspi sul mercato: per adempiere al diktat politico del Governo, senza subire perdite finanziarie ritenute ingiustificate.
Nel contempo, un intervento personale del Premier nel corso di un cda di Tim ha fermato una delibera già pronta per l’ingresso del megafondo Usa Kkr come investitore di minoranza nella rete Tim. Palazzo Chigi si è premurato di far sapere che non si tratterebbe di un no a Kkr, ma dell’invito sia a Tim, sia al fondo statunitense a partecipare allo sviluppo del progetto Fibercoop (banda larga nazionale) con il disimpegno di Enel dall’attuale OpenFiber e l’ingresso strategico di Cassa depositi e prestiti.
I Benetton calano sul tavolo la carta della vendita di Autostrade all’estero. Tim vuole/deve far leva sullo scorporo della rete. Il Premier Conte si agita. Sarà interessante vedere con quali esiti: sulle stesse società-scacchiere. E con quali confronti con l’estate bollente dell’ex Premier Prodi: che un anno fa è stato uno dei pigmalioni al ribaltone fra Conte-1 e Conte-2.