La politica ma anche la Borsa e l’industria editoriale (imprese e giornalisti) hanno decretato che Mediaset non è un caso e che quindi non merita neppure una domanda, figurarsi dieci. Dopo una settimana abbondante dall’annuncio del riassetto societario, poco o nulla è stato aggiunto ai comunicati di Cologno sulla nascita di una nuova holding olandese, con l’unica e ostentata sottolineatura riguardante il mantenimento della residenza fiscale in Italia. 



In un editoriale sul Sole 24 Ore, un commentatore come Alessandro Penati, cita frettolosamente Mediaset come caso fra tanti dell’internazionalizzazione accelerata dell’impresa capitalistica (a fianco del tentativo Renault da parte di Fca, essa pure migrata in Olanda). 

Da un giornalista della finanza “democratica” di mercato come Penati – approdato via via alle colonne del Corriere della Sera e a quelle di Repubblica per tornare infine a quelle del quotidiano confindustriale – ci si sarebbe potuti attendere almeno qualche riga riflessiva sulla finalità semi-dichiarata dell’operazione “Mfe Bv”: consentire a Fininvest di allentare la pressione della scalata di mercato della francese Vivendi per il controllo di Mediaset, tramite azioni-“pillola avvelenata” a voto multiplo. Quanti anatemi abbiamo letto da Penati – in un quarto di secolo di neoliberismo ideologico – contro ogni stortura regolamentare che frenasse le forze del Mercato e difendesse gli immobilismi di posizione, fossero impersonati da una dinastia familiare, di una Fondazione bancaria, di un patto di sindacato ordito da Mediobanca? Sempre largo alle public company, ai mega-fondi, alle Opa, meglio se dall’estero. Al bando ogni difesa di retroguardia, antimercatista e antiglobalista.



Ma il punto su Mediaset non è questo o non è principalmente questo. Il punto è che Mediaset è da sempre una società italiana quotata in Borsa. come tante altre, ma – a differenza di tutte – è dotata da sempre di uno status singolare di “gruppo privato di interesse nazionale”. È – con la Rai statale – duopolista del mercato tv italiano. I suoi ricavi e i suoi profitti sono stati finora protetti da una legislazione nazionale – nata “di fatto” nel 1990 – che ha posto il duopolio della tv generalista tradizionale in posizione dominante nella spartizione regolata delle “risorse” generate dal mercato. Eppure Rai e Mediaset non gestiscono un’infrastruttura veramente strategica come fa anzitutto Tim: altro gruppo finito – sul mercato e senza colpo ferire – sotto il controllo di Vivendi e poi faticosamente “rinazionalizzato”, grazie a una tardiva normativa golden share e addirittura all’intervento diretto della Cdp. Ma Mediaset – come Rai – non è neppure Eni o Enel, veri gruppi “d’interesse nazionale”, esposti tuttavia da tempo allo sviluppo reale della concorrenza anche sul loro home market, sotto la vigilanza di un’autorità indipendente.



Ora questa strana società di proprietà di una famiglia ma d’interesse nazionale di nome Mediaset ha deciso di trasferire la sua sede in Olanda: con la motivazione ufficiale che l’industria televisiva è ormai internazionalizzata e richiede strutture e strategie nuove (la stessa Mediaset ha appena annunciato l’acquisto di una partecipazione qualificata nella tedesca Prosiebensat1). L’ipotesi verosimile è che Fininvest abbia messo in cantiere un vasto riordino delle sue attività televisive con molte finalità: strategiche, finanziarie, di successione familiare. Nulla da eccepire se osservato attraverso le lenti strette degli analisti finanziari: l’azionista di controllo di Mediaset reagisce sul piano industriale a un’aggressione esterna.

Anche Rupert Murdoch – grande amico-rivale di Silvio Berlusconi – si è recentemente ritirato dopo aver dato nuovi assetti al polo NewsCorp. Lo Squalo australiano, tuttavia, non è mai stato protetto da leggi e governi. Tanto meno Murdoch è stato premier del Paese le cui leggi nazionali proteggevano le sue attività industriali. Non  è mai stato in conflitto d’intesse, spesso si è trovato invece in conflitto tout court con leggi e governi.

Sul conflitto d’interesse di Berlusconi si sono udite o lette negli ultimi trent’anni centomila domande. A cui nessuno ha mai dato risposte reali. Non lo hanno fatto i governi di centrosinistra, diretti competitor politici del Cavaliere, ma di fatto tacitamente collusi in una sorta di “Nazareno televisivo” di lungo periodo, che assegnava Rai e Mediaset alle rispettive metà dello schieramento politico, tenendo ai margini ogni potenziale intruso (politico o editoriale). Ma non hanno mai preteso risposte effettive nemmeno gli editori non televisivi, convinti che il muro normativo nazionale fra vecchi comparti della media industry li proteggesse (invece ha solo impedito che l’intero settore media italiano si preparasse all’urto drammatico con la globalizzazione digitale). Politica ed editoria, comunque, non sembrano più capaci di porre e affrontare poche ma apparentemente cruciali questioni.

Non è l’ora abolire la legge Mammi-Gentiloni-Gasparri-etc, oggi “Testo unico  per la radiotelevisione”? Abolire, oggi più che mai, significa abolire: ricostruire da zero. Non è l’ora di privatizzare la Rai e cancellare il canone, notoriamente la gabella più odiosa per le famiglie italiane? Perché la famiglia Berlusconi può – caso unico nell’Azienda-Paese –  affrontare le sfide imprenditoriali della competizione globale con “aiuti di Stato” garantiti in via esplicita o implicita?    

Altre domande – sempre meno di dieci – sembrano lecite anche se non obbligatorie. Perché la comunità giornalistica nazionale, in queste settimane, è capace di scendere in piazza solo per  il salvataggio politicamente corretto, legalmente scorretto e sostanzialmente assistenzialista di Radio Radicale? Con il risultato di ottenere infine un’elemosina spazientita grazie all’intervento “scorretto” del vicepremier (“fascista”) Matteo Salvini. Il primo a tacere, peraltro, sul “caso Mediaset”. In attesa di incassarne la sua parte: l’eredità elettorale di Berlusconi.