Davanti al porto di Yantian, lo scalo dei container in uscita da Shenzhen, stazionano decine di navi in attesa di poter imbarcare i container che hanno riempito ogni angolo del porto, grande una volta e mezzo lo scalo di Los Angeles, l’infrastruttura vitale per i commerci del Guangdong, la regione più popolosa della Cina che genera più di un decimo dell’export.
Qui, da settimane, giacciono sulle banchine almeno 160 mila container. Pechino, temendo una nuova impennata del contagio, ha fermato l’attività del porto, che oggi funziona a un terzo delle sue capacità. Il risultato? Il prezzo per trasportare un container da Shanghai fino alla California è schizzato sù del 63%, a fronte di un boom di richieste di trasporto, salite del 45% rispetto a un anno fa.
Anche di questo è fatta l’inflazione esplosa ancor prima e più forte del previsto negli Stati Uniti e di lì destinata a diffondersi in giro per l’economia globale. In parte il fenomeno è frutto dei tanti colli di bottiglia inevitabili dopo il lungo sonno della pandemia. Il più clamoroso riguarda la penuria di chips, che sta mettendo in crisi l’economia dell’era digitale, a partire dall’auto. Il passaggio, seppur graduale, dall’auto a combustione all’elettrico, per giunta, ha già avuto un altro effetto indesiderato: il prezzo delle cinque materie prime indispensabili per la transizione è salito del 150% circa in un anno.
Anche così si può raccontare il ritorno del carovita: +5% in Usa, in rapida accelerazione rispetto a un anno fa, a mano a mano che prende velocità la ripresa. L’Europa, per ora, è in parte indenne dal fenomeno: l’economia sale (specie in Italia e in Spagna), ma l’output gap, cioè il potenziale di crescita è ancora ampio. Ma non illudiamoci: il contagio dell’inflazione è rapido e imprevedibile. E le armi per batterla, se non ci si muove per tempo, si riducono a una sola: la stretta della moneta, un rimedio che, per un Paese con il debito italiano, equivale a un suicidio annunciato. Sfuggiremo a questa sorte? Oppure, passata la stagione dell’euforia, la sorte italiana è già segnata?
È molto presto per chiederselo o, tantomeno per fasciare la testa in anticipo. Di sicuro una parte della soluzione sta nell’uso virtuoso delle risorse del Recovery fund. Ma un’altra parte non piccola consiste nella capacità della Federal Reserve di gestire il volo dei tassi, come un saltatore dal trampolino. Tocca a loro convincere i mercati perché, come già avviene, gli operatori si pieghino, più o meno persuasi, a investire all’1,50%, cioè meno di un terzo dell’erosione dei prezzi. Non è un’impresa impossibile visto che, a comprare bond, sono la stessa Fed che continua ad ingoiare 120 miliardi al mese di titoli.
Ci sono poi le banche centrali del resto del mondo, che si vedono arrivare ogni mese una quantità crescente di dollari per effetto del disavanzo delle partite correnti americane. Ci sono per giunta le assicurazioni vita di tutto il mondo, dal Giappone in giù, che sono obbligate dai loro regolatori a comprare grandi quantità di titoli risk free (cosiddetti). Senza contare le banche (più in Europa che in America), che parcheggiano in governativi una parte della liquidità ottenuta a tassi di favore dalle banche centrali.
Insomma, la repressione finanziaria del fenomeno può contare su solidi alleati. Senza dimenticare che, prima o poi, i porti cinesi torneranno a funzionare e alcuni fattori patologici (il boom delle auto usate in assenza del nuovo piuttosto che l’aumento delle tariffe aeree) saranno di breve durata. L’inflazione, dunque, può tornare sotto controllo. Meglio dopo che prima perché l’aumento dei prezzi è una condizione inevitabile per una vera ripresa dell’economia. E, ancor più importante, per metter sotto controllo il debito pubblico. Ecco perché le Borse, lungi dal provare paura, galleggiano verso i massimi.
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