Christine Lagarde torna a insistere sull’importanza delle politiche di bilancio “per rafforzare la ripresa nella zona euro”, anche perché “una ripresa più solida è una precondizione per riallacciare l’inflazione attorno al suo percorso pre-pandemico”. Parole che sono state pronunciate al Parlamento europeo, che ieri ha approvato il nuovo regolamento del Recovery fund, compreso l’articolo 9 che stabilisce la possibilità di sospendere l’erogazione delle risorse quando si ritenga che un Paese non stia portando avanti un’azione efficace per ridurre il proprio deficit eccessivo. Una norma di cui dovrà tenere conto anche il nuovo Governo, che sarà con tutta probabilità guidato da Mario Draghi, che ad aprile dovrà mettere a punto il Documento di economia e finanza e potrà rivedere il percorso di riduzione del deficit/Pil che nella Nadef prevede di passare dal 7% di quest’anno al 3% del 2023. Cosa dovrebbe fare il nuovo esecutivo sui conti pubblici? «Prima di rispondere è necessaria una premessa», ci dice Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.
Quale?
Il deficit creatosi nel 2020 e anche in questa prima parte del 2021 è fondamentalmente legato all’effetto dirompente della pandemia. Sarebbe fuori luogo considerare questo “buco di bilancio” come una conseguenza di un normale ciclo economico. Credo che un Premier come l’ex Presidente della Bce, che ha conquistato la stima di tantissimi in Europa e non solo, sia la migliore garanzia sul fatto che questo aspetto, qualora fosse necessario, venga fatto presente.
Sta dicendo che questa spesa non dovrebbe essere conteggiata?
Bisognerebbe che vi fosse in questa fase una sorta di contabilità separata. Occorre chiedersi: se non ci fosse stata la pandemia, quale sarebbe stata la dinamica economica italiana? Per valutare le performance di un Paese non si può non tenerne conto, anche perché il rapporto deficit/Pil dipende essenzialmente dal denominatore. Visto che gli uffici statistici ed econometrici abbondano a Bruxelles, questo esercizio controfattuale può essere facilmente svolto.
A quale risultato porterebbe?
Non bisogna aspettarsi chissà che cosa, ma di certo non il -8,8% con cui si è chiuso il 2020 secondo le statistiche ufficiali. Chi è riuscito a crescere nonostante tutto senza particolari problemi a livello mondiale è stata la Cina. Ma i metodi cinesi non sono ovviamente quelli di una società democratica.
Va da sé, però, che la pandemia ha inciso sul tessuto produttivo e non è detto che torneremo a crescere come prima. Lei che previsioni si sente di fare in merito?
È già stato detto, e non posso che condividere, che non riusciremo a ritornare a breve ai livelli di Pil pre-Covid. Stiamo pagando purtroppo anche le politiche di austerità del passato: tutto quello che abbiamo guadagnato con l’ingresso nell’euro è già stato perso. Credo che per quest’anno ci sia la possibilità, e sarebbe molto importante arrivarci, di una crescita del 4-5%, che consentirebbe di aiutare a riassorbire la disoccupazione. È fondamentale, però, che questo +4-5% non sia frutto solo delle esportazioni, ma anche della domanda interna.
Sarà importante, come ha detto Lagarde, che le politiche di bilancio si muovano nella direzione della crescita, ma anche che la Bce faccia la sua parte.
Nella sua intervista a Le Journal du Dimanche, Lagarde ha ricordato quello che l’Eurotower sta facendo, anche sull’onda dell’eredità di Draghi, che è veramente tanto. La Bce ha come obiettivo la sola stabilità dei prezzi, mentre la Fed anche la piena occupazione, un tema importante se pensiamo al momento che vive il nostro Paese, vicino alla scadenza del blocco dei licenziamenti.
Da questo punto di vista cosa può fare Lagarde?
Di certo non può infrangere le regole, ma la Bce può avere un ruolo di sostegno allo sviluppo dell’Eurozona e dell’Ue e in nome di questo obiettivo può portare avanti le sue politiche eccezionali. Di fatto Lagarde, quando dice che non si possono chiudere i rubinetti della politica monetaria, si sta riferendo a questo, ai programmi contro la pandemia che sono già stati autorizzati. Se ci verranno chieste delle garanzie, chi meglio di Draghi potrà darle?
A questo proposito torniamo alla domanda iniziale. Cosa dovrebbe fare il nuovo Governo sui conti pubblici? Quale livello di deficit/Pil dovrebbe indicare nel Def?
È una questione subordinata alla crescita. La cosa importante è che il deficit sia fatto per investimenti, perché nel giro di due-tre anni portano a un rendimento in termini di crescita.
Secondo lei, bisogna lasciare immutato il percorso di rientro al 3% nel 2023?
Sì, anche perché – facendo un discorso più politico – se rimane il supporto della Bce è meglio non inimicarsi la Commissione. Tuttavia non si può tacere il fatto che sarebbe il caso di ridiscutere i parametri figli del momento storico in cui sono stati proposti: il 60% era la media del debito/Pil dei Paesi europei negli anni ’90; il 3% di disavanzo era legato a ipotesi di crescita (+3%) oggi irrealistiche per tutti Paesi (basti pensare che in Germania dal 2000 la crescita è stata mediamente del 2%). Forse è arrivato il momento di parametri strutturali e flessibili legati al XXI secolo e a obiettivi nuovi.
(Lorenzo Torrisi)
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