Nell’Economic Outlook diffuso ieri, l’Ocse prevede per l’Italia una crescita del Pil pari allo 0,7% quest’anno e all’1,2% nel 2025. L’organizzazione con sede a Parigi evidenzia che gli sgravi fiscali varati e l’aumento della spesa pubblica legata al Pnrr compensano la forte riduzione dei sostegni a famiglie e imprese contro il caro bollette, determinando una posizione fiscale neutrale nel 2024 e un moderato inasprimento fiscale nel 2025, anche perché il debito pubblico su Pil rischia di salire al 140% l’anno prossimo. Come spiega Domenico Lombardi, economista, direttore del Policy Observatory della Luiss ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, «l’Ocse dipinge un quadro complessivamente favorevole, promuovendo anche la politica fiscale prudente del Governo. Basti pensare che la previsione sul Pil di quest’anno è superiore di oltre tre volte a quella della Germania (+0,2%)».
L’Ocse, come aveva già fatto il Fondo monetario due settimane fa, evidenzia il problema di un elevato debito pubblico per l’Italia.
Come noto, il nostro Paese ha ereditato l’enorme fardello rappresentato dal debito pubblico e il Governo dovrà naturalmente lavorare per identificare un sentiero di sostenibilità nel lungo periodo. L’Esecutivo dovrà anche impegnarsi per rafforzare le aspettative di crescita e innalzare quella potenziale. Quest’ultima, in particolare, rappresenta la vera chiave di sostenibilità per un’economia ad alto debito. Oggi vi sono, peraltro, anche condizioni di politica monetaria molto restrittive che rendono particolarmente oneroso il rifinanziamento del debito, ma auspicabilmente su questo fronte dovrebbero esservi dei cambiamenti positivi già a partire dai prossimi mesi.
La Bce dovrebbe in effetti iniziare a tagliare i tassi a giugno. Fin dove si potrà spingere a farlo se la Fed, come sembra, opererà una loro riduzione solo a fine anno?
Negli Stati Uniti raggiungere il target inflazionistico del 2% si sta rivelando più difficile del previsto. A marzo l’indice dei prezzi ha fatto registrare una variazione tendenziale del +3,5%, superiore alle attese. C’è, pertanto, un problema di vischiosità oltre le attese nella dinamica (dis-)inflativa. Questo anche a causa del tasso di crescita dell’economia, che resta sopra il potenziale, e di una politica fiscale iper espansiva, con un deficit che il prossimo anno, secondo le stime del Fmi, arriverà oltre il 7% del Pil. Per contenere la domanda aggregata, la Fed dovrà, quindi, mantenere i tassi almeno invariati e rinviare l’avvio del ciclo di riduzione dei tassi a giugno. Questo inevitabilmente finirà per condizionare la Bce non tanto nella fase di avvio del ciclo di riduzione dei tassi di intervento quanto, piuttosto, nella velocità e nell’entità dei tagli.
Per quale ragione?
Se l’asincronia tra i due cicli dovesse ampliarsi, la Bce non vorrà un’eccessiva svalutazione dell’euro: questo non solo per le conseguenze inflazionistiche che avrebbe, dato che molte importazioni, specie quelle di materie prime, sono denominate in dollari, ma anche per evitare ulteriori frizioni con la Casa Bianca nel caso di un’ipotetica presidenza Trump. Infine, va considerato che nei prossimi mesi la svalutazione delle valute dei partner chiave degli Stati Uniti rischia di entrare a pieno titolo nel dibattito sulle presidenziali americane, il che potrebbe alimentare possibili ritorsioni commerciali.
Una politica monetaria che restasse restrittiva, accompagnata dal previsto inasprimento fiscale per il 2025, potrebbe essere un problema per l’Italia?
La moderazione nell’allentamento delle restrizioni monetarie renderebbe la vita sicuramente più difficile a un Paese ad alto debito come il nostro. Bisognerà cercare di spingere sull’acceleratore rispetto ad alcune variabili che sono sotto il controllo del Governo, in particolare la piena attuazione del Pnrr.
Di questo possibile effetto negativo se ne dovrà tenere conto nelle negoziazioni con Bruxelles sul sentiero di riduzione di deficit e debito?
Se l’asincronia nell’avvio del ciclo di riduzione dei tassi da parte di Bce e Fed dovesse ampliarsi, ci si troverebbe di fronte a un nuovo elemento che dovrà sicuramente essere oggetto di valutazione da parte della Commissione europea e che potrebbe indurre a una parziale flessibilità. Più che altro per l’impatto che avrà sull’attività economica, visto che l’effetto sarà depressivo su un’economia già fiacca.
E per quanto riguarda i conti pubblici?
Il Patto di stabilità riformato prevede già un margine di flessibilità legato all’impatto dei più alti tassi di interesse sul rifinanziamento del debito. Si tratta di un elemento positivo, ma solo in via parziale, perché comunque l’Italia dovrà rimanere su un sentiero di politica fiscale iper prudenziale a prescindere dal dettato del Patto di stabilità.
(Lorenzo Torrisi)
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