Due notizie in apparenza slegate tra loro hanno caratterizzano in settimana il dibattito tra politica ed economia. La sorpresa positiva arriva dai tassi di interesse. La drastica cura della Fed sta dando buoni frutti, al di là di ogni previsione. La striscia di otto rialzi del costo del denaro in meno di due anni non ha fatto precipitare l’economia Usa in recessione. E la drastica cura, la più severa da cinquant’anni a questa parte, non ha provocato la caduta del mercato del lavoro.
L’Europa, alle prese con un’inflazione più ostinata, la forza dell’euro e una debolezza pronunciata della congiuntura, complice la crisi della Cina, il cliente principale dell’economia tedesca, non può ancora permettersi il giro di boa, ma le borse festeggiano comunque. Intanto un banchiere prudente come Ignazio Visco si spinge a dire che la pausa nel rialzo dei tassi è ormai vicina anche su questa sponda dell’Atlantico.
Il terzo trimestre, insomma, inizia nel migliore dei modi. Almeno sul piano finanziario. Sul piano politico l’Unione europea ha invece offerto un gustoso sebbene drammatico antipasto della prossima campagna elettorale: destra e sinistra si sono sfidate all’ultimo voto su uno dei pilastri del Green Deal, ovvero sulla strategia verde da adottare per combattere l’emergenza climatica, ormai una componente stabile della congiuntura europea. Gli ambientalisti, capeggiati da Frans Timmermans, l’hanno spuntata per pochi voti a fronte della spaccatura dei Popolari, tentati dall’abbandonare le alleanze tradizionali di centrosinistra a favore dell’asse con i sovranisti a cui lavora tra l’altro Giorgia Meloni. È solo il primo atto di una partita che dominerà la campagna elettorale: da una parte, la richiesta di anteporre la questione ambientale a tutto il resto; dall’altra, le obiezioni di una robusta opposizione sociale.
Una trasformazione epocale della mobilità, con l’introduzione a tappe forzate dell’auto elettrica, combinata con una rivoluzione delle pompe di calore urbane e interventi assai costosi sulle abitazioni nonché sulla gestione dei suoli agricoli promette di cambiare la vita di città e campagne. Con un immediato e pesante sacrificio per i portafogli della classe media. Una partita che, calcola Le Monde, per la sola Francia comporterà uno sforzo finanziario di 60 miliardi di euro per il solo anno prossimo. Ma sarà in grado Macron (o un suo successore) di portare avanti un impegno di questo genere? Non dimentichiamo i gilets jaunes ovvero la penultima esplosione giacobina dei vicini transalpini. Tutto cominciò allora con una tassa, peraltro leggera, sui carburanti agricoli con l’obiettivo di investire in benzine pulite.
Facile prevedere che la destra intenda cavalcare il malumore di chi accetta malvolentieri di pagare una tassa ambientale che potrebbe rivelarsi un flop. Sia Cina che India inquinano assai di più della vecchia Europa, si dice, ma non hanno alcun interesse, né alcuna volontà di frenare la loro crescita per le richieste dei Paesi che hanno inquinato e sfruttato a fondo le risorse del Terzo mondo. E così via. La scelta verde, sul piano contabile, appare agli occhi dei più costosa e incerta, dal punto di vista dei risultati. Almeno in Europa. Negli Usa il piano Ira di Joe Biden ha avuto l’indiscutibile merito di combinare l’obiettivo di rilanciare a suon di investimenti l’economia Usa nella prospettiva del risanamento ambientale: dall’auto elettrica all’investimento in chips, tutto è all’apparenza subordinato al traguardo di un’America più pulita. Im questo modo i democratici sperano di spostare il consenso dei lavoratori Usa a favore dell’economia verde.
In Europa, per ora, non si vede nulla del genere. I Paesi più ricchi hanno colto il pretesto del piano Ira per ottenere la Bruxelles la licenza a sostenere di più le industrie di casa, anche a scapito dei partner Ue. Né si intravvedono all’orizzonte passi in avanti per una politica comune on grado di raccogliere consenso popolari. In questa cornice s’inquadra una politica di bilancio e dei tassi puramente difensiva.
Un esempio? Si è molto parlato di Mes nelle passate settimane. Ma è ormai caduta nel vuoto la riflessione su cosa fare di questi fondi. Nessuno parla più dell’ipotesi di ricomprare con quei fondi una parte del debito accumulato negli anni di crisi. O di utilizzare queste risorse su progetti comuni. Eppure l’unica soluzione realistica è quella di consentire quella flessibilità di bilancio necessaria ai singoli Stati per edificare le infrastrutture di un mondo migliore. È la proposta italiana di riforma del Patto di stabilità che prevede una “golden rule” per gli investimenti necessari per la produzione di quei “beni europei” che sono la nostra assicurazione per un futuro più green e meno tossico. Ancor meglio se quegli stessi beni potessero essere direttamente finanziati dall’Ue, in grado di spuntare, per la provvista finanziaria, un tasso di interesse minore.
Ma, a proposito di tassi, è importante scongiurare la trappola dell’austerità tedesca che, liquidata la stagione di Mario Draghi, ha ormai ripreso la leadership della Bce. Non dimentichiamo gli effetti della politica di Wolfgang Schaueble e Angela Merkel, quando la Germania ha sprecato condizioni eccellenti per inseguire l’obiettivo del “debito zero” trascurando quegli investimenti in infrastrutture che rendono oggi problematica la ripresa del motore dell’economia europea costretta a far ponti d’oro all’americana Intel (semiconduttori) o ai cinesi di Catl (batterie) per recuperare l’efficienza smarrita.
L’austerità non ha pagato. Speriamo di non sprecare il Green Deal.
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