Il Centro Studi di Confindustria ha presentato ieri il Rapporto 2019 sull’industria italiana che, a ormai poco più di dieci giorni dalle elezioni del 26 maggio, evidenzia la necessità di una politica europea per la manifattura. Una richiesta che arriva tra l’altro nel giorno in cui Eurostat certifica un calo della produzione industriale europea nel mese di marzo (-0,6% in un anno nell’eurozona e -0,4% nell’Ue-28). «L’Europa più che mai necessita di rilanciare la domanda interna, che è stata sacrificata in questi anni dalle misure di austerity», ci dice Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison.



Professore, colpisce senz’altro la conclusione del rapporto di Confindustria, con cui si chiede una politica europea per la manifattura.

Credo che la conclusione sia effettivamente cruciale, perché la situazione attuale, descritta nel rapporto, vede il venire meno di una serie di condizioni che avevano favorito la crescita negli anni passati. Ciò sta avvenendo per una serie di fattori nuovi, tra cui il riemergere della tendenza al protezionismo. La posizione dell’America, la reazione a catena innescata, la crisi di settori trainanti in alcune aeree, come l’automobile in Europa, stanno determinando un vero e proprio “vuoto d’aria” nel trend della crescita mondiale. Quindi, l’Europa più che mai necessita di rilanciare la domanda interna, che è stata sacrificata in questi anni dalle misure di austerity.



Misure che dovevano servire a sistemare i conti pubblici…

Laddove i conti vanno riequilibrati, questo va fatto, ma il modo in cui questo obiettivo è stato perseguito in Europa ha favorito per alcuni anni il ko di due importanti paesi membri dell’Eurozona, l’Italia e la Spagna, facendo venire meno la domanda di circa 100 milioni di persone. Ora la crisi della Germania rischia di lasciare l’Europa in panne, anche perché non dobbiamo dimenticare le difficoltà di finanza pubblica che la Francia è riuscita a dissimulare in questi anni. Di fatto, considerando anche il rallentamento della produzione industriale europea, Spagna compresa, certificato dall’Eurostat, i quattro principali paesi dell’Eurozona sono bloccati.



Come si fa a cambiare rotta?

Questo contesto richiede da parte dell’Europa una capacità progettuale per rilanciare la domanda interna. Bisogna trovare dei sistemi per convincere i paesi che hanno adottato l’euro che la moneta unica è importante, come pure l’equilibrio dei conti pubblici, ma che se la macchina della crescita si blocca, tutti famosi rapporti debito/Pil e deficit/Pil perdono di significato perché il Pil non cresce più. Quindi, anche gli sforzi per contenere il deficit vengono in gran parte vanificati dal fatto che il Pil si ferma. Solo un’Europa che non esca con le ossa rotte dalle prossime elezioni – perché c’è anche il rischio di una disgregazione dell’Ue – può rilanciare la domanda interna con un piano di investimenti infrastrutturali.

Anche cinque anni fa si parlava di un piano per gli investimenti…

Va fatto qualcosa di più importante del Piano Juncker, possibilmente anche con l’emissione di titoli di debito europeo che vadano a finanziare questa massa di investimenti. L’Europa non deve aver paura di indebitarsi per questi investimenti, perché è dalle politiche di crescita che può arrivare anche un riequilibrio ordinato dei conti pubblici nel medio e lungo termine.

Nel rapporto di Confindustria si dice qualcosa di interessante anche sull’Italia?

Sì, qualcosa che rafforza un convincimento che ho da tempo: il manifatturiero italiano rimane un cardine della nostra economia e ha conservato, nonostante tutti gli sconvolgimenti degli ultimi anni, un importantissimo settimo posto mondiale per valore aggiunto e un nono posto per le esportazioni. Siamo anche quinti per surplus commerciale manifatturiero. Il rapporto evidenzia anche come alcuni settori abbiano investito moltissimo nell’industria 4.0, facendo uso dell’iper ammortamento: la manifattura italiana cerca quindi di adeguarsi alle sfide dei tempi. Il problema purtroppo è che non si vive di solo export.

Dunque la domanda interna è vitale…

Sì, ma a livello europeo. L’Europa è ancora una delle aree economiche più ricche, insieme agli Usa, ma non esprime una domanda di consumo adeguata e questo blocca anche la domanda di investimenti. Se l’export rallenta cosa facciamo? Chiudiamo le fabbriche, riducendo la capacità produttiva e creando nuova disoccupazione e quindi alimentando il processo di calo della domanda interna? Così si crea solo una spirale pericolosa. Più che mai l’Europa ha oggi bisogno di una politica keynesiana, non per scavare buche, ma per costruire i presupposti per valorizzare meglio il potenziale che ha nel settore manifatturiero.

Confindustria evidenzia la necessità di rivedere le regole su concorrenza e aiuti di Stato, così come fatto anche da Francia e Germania con il loro manifesto per creare campioni industriali europei. Qui sembra però che si voglia andare oltre…

Sì, perché la soluzione al problema non è fare un maquillage di regolamenti, ma dotarsi di una visione di crescita a medio e lungo termine con importanti interventi pubblici, coordinati. Visto il successo e i risultati che ha avuto in Italia, un super ammortamento europeo sarebbe fondamentale, dovrebbe diventare addirittura strutturale, nel senso di stimolare costantemente le imprese ad avere macchinari sempre più moderni e adeguati ai tempi. Già questo basterebbe per mettere in moto mezza industria meccanica d’Europa. Se poi a questo tipo di investimento privato se ne affiancasse uno pubblico sulle infrastrutture, sulla ricerca e sviluppo, sulla formazione, le ricadute sarebbero importanti. Se invece si aspetta solo che torni il momento buono dell’export, non so l’Europa nel frattempo che fine farà.

Anche perché, come abbiamo visto nei giorni scorsi, c’è sempre il rischio di un’escalation della guerra commerciale.

È fondamentale che al proprio interno, dove c’è un mercato comune, dove non ci sono protezionismi, l’Europa possa cogliere l’opportunità di far crescere la domanda di merci, di servizi, di investimenti. Gli Usa hanno dimostrato di avere una maggior capacità di sfruttare la domanda interna per crescere rispetto all’Europa. La ragione è che gli Stati Uniti hanno un approccio più “easy” sulla spesa pubblica, sul deficit, sul bilancio e quindi hanno sfruttato al massimo il potenziale con il risultato che la crescita è stata più forte e hanno mitigato l’impatto del peggioramento degli indicatori di finanza pubblica.

(Lorenzo Torrisi)