Nello scorso mese di novembre, sull’onda della mobilitazione generale per il meeting di Glasgow sul cambiamento climatico, venne annunciato con grande enfasi il varo del fondo di investimento Msci global dedicato al finanziamento delle iniziative per la lotta al CO2 sostenuto dal club costituito da 30 tra le più importanti banche e altre imprese del pianeta. L’iniziativa, sotto forma di un Etf, si basava sul principio di escludere le società più inquinanti a favore di quelle che hanno eliminato le energie fossili.
Assai minor pubblicità ha avuto in questi giorni la notizia che il fondo sembra destinato a chiudere i battenti perché nessuno dei promotori ha finora rispettato l’impegno a investire la cifra pattuita. Bank of America, Citigroup e Banco de Santander dicono di esser pronti a versare, ma solo dopo che l’hanno fatto gli altri per non violare i vincoli posti dai rispettivi statuti. Altri hanno sollevato obiezioni di vario tipo e continuano a prender tempo. I pochi sottoscrittori privati si sono ritrovato alla guida di un esercito disarmato ma costoso. Di qui il rischio di un imbarazzante fallimento dell’impegno dei Big privati a finanziare l’economia verde. Assieme al sospetto che lo sbandierato impegno ecologico rappresenti un impegno di facciata e poco più. Intanto i bilanci delle Big Oil e delle società del carbone registrano utili in forte ascesa.
A completare il quadro è l’impennata dei prezzi del gas naturale, in buona parte frutto della vulnerabilità dell’Europa che incautamente ha affidato al libero mercato il compito di assicurare l’approvvigionamento energetico, con il risultato di aumentare a dismisura il potere di pressione dei Paesi produttori, a partire dalla Russia.
È questo il quadro del 2022, anno iniziato da poco ma in cui molto è già accaduto. A partire dal calo dei mercati azionari, incapaci nel breve di rispondere alle esigenze poste dalla stagione della transizione delle economie a nuovi paradigmi, tra cui l’addio in tempi molto (forse troppo) brevi ai motori a combustione e l’approvvigionamento di materie prime di tipo fossile. Gli squilibri economici hanno rapidamente messo in moto processi politici pericolosi, alimentati da suggestioni mediatiche. Sperando che il confronto resti limitato all’ambito virtuale.
L’America fa la voce grossa, ma sembra quasi invitare la Russia a prendersi l’Ucraina quando ripete che, qualsiasi cosa succeda, nessun esercito occidentale interverrà nel conflitto. La reazione sarebbe quella di colpire la Russia con la madre di tutte le sanzioni economiche, sigillandola per poi farla implodere. L’Europa abbandonerebbe a quel punto qualsiasi velleità di flirtare con la Russia e verrebbe riallineata. A sua volta la Russia aumenta la pressione sull’Ucraina in un gioco ogni giorno più rischioso in cui tutti puntano la pistola contro tutti e restano bloccati come negli interminabili ralenti dei film western di Sergio Leone.
I mercati annusano che i grandi giochi hanno ormai liquidato lo scenario precedente. La banca centrale americana è pronta per un’ennesima capriola. Sei mesi fa, nell’ansia di dare una mano al tentativo di Biden di tenere alto il ritmo della ripresa, il mantra era che l’inflazione era transitoria. Poi si è cercato di scaricare il problema sulle carenze di chips e le disfunzioni della logistica, causa di un aumento dei prezzi per carenza di offerta. Infine, si è deciso di dare il via al rialzo moderato dei tassi. Ora, di fronte all’impennata dei prezzi e alla tensione sui salari, fa la voce grossa. Ma sia la Fed che ancor più la Bce sanno di correre su un terreno minato: il rischio recessione negli ultimi due mesi si è enormemente dilatato. Di qui la sensazione che le decisioni prossime venture saranno più blande del previsto.
A metà mese la Fed interromperà il lungo ciclo di espansione monetaria, ma con un modesto rialzo dei tassi dello 0,25%. Anche la Bce muoverà nel frattempo i primi passi per ridurre il sostegno alle economie, sotto la pressione della Germania che guarda con grande apprensione all’aumento dei prezzi del mercato immobiliare e, di riflesso, degli affitti, l’indicatore più sensibile del carovita in un Paese in cui la proprietà è meno diffusa che da noi.
Si va verso una fase di denaro più caro ma non troppo, nella doppia speranza che tacciano i cannoni e si spenga la dinamica al rialzo dei prezzi, raffreddati da un circolo virtuoso di afflusso delle materie prime.
E se l’inflazione non si fermerà? Nel breve potrebbe essere una buona notizia per un Paese fortemente indebitato come l’Italia. Ma sarebbe un gioco molto rischioso: a lungo andare la Bce dovrà comunque alzare i tassi. Guai se capiterà in tempi di recessione, un guaio che l’Italia non può permettersi di correre. Il quadro internazionale, come sa bene Draghi, ci impone di correre per trovare un rifugio prima che scoppi il temporale.
Quando? Una recessione, breve e speriamo non violenta, è quasi scontata per il 2023. Guai a trovarsi ancora a metà del guado evitando di impegnarsi sul serio sulle riforme necessarie. Come i 30 Big smascherati dal fondo.
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