La ventilata fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank è saltata definitivamente. L’operazione era caldamente appoggiata dal ministro delle Finanze tedesco Scholz e quindi costituisce una sconfitta, l’ennesima, per il governo Merkel. Il piano era fortemente sostenuto dal governo, ma non aveva una chiara prospettiva economica e finanziaria; inoltre, aveva ottenuto la contrarietà dei sondaggi svolti presso i dipendenti che si erano e dichiarati contrari in grande maggioranza. Contrarietà alla fusione era stata espressa anche dai principali azionisti di Deutsche Bank, la cinese Hna e il fondo sovrano del Qatar. Il piano inoltre prevedeva il taglio degli esuberi pari a circa 30 mila unità: una cosa molto difficile da gestire politicamente.
Ma come mai la politica si era indirizzata verso una soluzione tanto difficile da gestire? Perché la politica tedesca è tutta dominata da due cardini: il primo è quello dell’austerità, il secondo è quello della supremazia tedesca. Quindi la soluzione per Deutsche Bank poteva essere solo quella di una fusione con un altro istituto tedesco. E siccome il governo tedesco detiene il 15% delle quote di Commerzbank la scelta dell’istituto bancario col quale fare la fusione è stata facile. Il piccolo problema è che Commerzbank ha debiti per 300 miliardi, mentre Deutsche Bank per 1.500 miliardi e tutte e due le banche sono in difficoltà per i risultati operativi e il conseguente calo del valore delle loro azioni. Quindi la nuova banca creata dalla fusione avrebbe avuto un ammontare di debiti pari a 1.800 miliardi, una cifra difficilmente sostenibile soprattutto per la mole spaventosa di derivati in pancia a Deutsche Bank (circa dieci volte il Pil della Germania) in tempi di crisi finanziaria.
Ora però la situazione rischia di passare in mano cinese, con tutti i relativi problemi di governance. Infatti, bisogna considerare che la Germania si era già costruita una propria via della seta “finanziaria”, tra l’altro senza alcun accordo con gli altri paesi europei. La via della seta tedesca prevede diversi accordi finanziari tra cui investimenti fino a 3.000 miliardi per lo sviluppo di infrastrutture in Cina. Ora con la crisi di Deutsche Bank un afflusso di denaro fresco cinese, interessato a mantenere quella via della seta e a mettere un grosso piede in Europa, non solo è utile ad ambo le parti, ma diventa quasi indispensabile.
Comunque il governo tedesco ha un’altra possibilità per gestire il proprio sistema bancario ed è quella di nominare un proprio uomo al governo della Bce. Il candidato più probabile è Weidmann, l’attuale governatore della banca centrale tedesca, anche perché finora non c’è mai stato un tedesco alla guida della Bce. Tutta la questione è complicata dall’astrusa architettura delle istituzioni europee: il governatore della Bce viene “nominato” dal Consiglio europeo, un organo anomalo, che ha un generico compito di indirizzo politico non meglio definito e i cui confini e le cui modalità di funzionamento non sono precisamente determinati. Il suo coordinamento con le altre istituzioni europee non è normato in nessun modo. Non va confuso con il Consiglio dell’Unione europea (che ha potere legislativo, come il Parlamento europeo). Ma la cosa più strana è il fatto che è composto dai capi di governo o di stato (dipende per ogni singolo Paese dal suo ordinamento) di tutti i paesi dell’Unione, anche quelli che non hanno l’euro, come la Polonia, l’Ungheria, la Svezia, la Danimarca, la Gran Bretagna. Infatti, l’attuale presidente è Tusk, presidente della Polonia. E così la nomina di governatore della Bce dipende anche dai paesi che non hanno l’euro, come Theresa May (la Brexit non è completata).
Il mandato di Draghi scade a fine ottobre e questa situazione diventa significativa anche per l’Italia. Infatti, la complicata situazione politica italiana lascia pensare che il governo attuale non avrà lunga durata, ma il presidente Mattarella difficilmente permetterà un ritorno alle urne che vedrebbe una larga vittoria della Lega. Quindi la soluzione più probabile, quella che potrebbe tranquillizzare un Europa a trazione tedesca, è quella che porterebbe Mario Draghi alla presidenza del Consiglio dei ministri.
Quello che si prospetta quindi, per i prossimi mesi, è un film già visto nel 2011. Inchieste giudiziarie che si moltiplicano nei confronti della Lega, sempre maggiori attriti nel governo, spread che sale durante l’estate, crisi di governo in autunno, Mario Draghi nominato senatore a vita e poi presidente del Consiglio, sostenuto da un patto M5S e Pd, con l’aiuto di altri partitini e magari di qualche cambio di casacca.
Ovviamente con un governo a guida Draghi sono garantiti per il nostro Paese sia l’austerità che la disoccupazione. Non solo perché l’austerità porta alla disoccupazione, ma anche perché la disoccupazione è necessaria per implementare quella flessibilità del lavoro tante volte richiesta dall’Unione europea. Una flessibilità del lavoro che vuol dire solamente salari più bassi necessari a contenere il costo del lavoro e a tentare di aumentare la competitività delle imprese anche a discapito del mercato interno, perché con stipendi più bassi ovviamente diminuisce la capacità di spesa dei cittadini.
Però, come noto, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. L’aggravarsi della crisi economica renderà sempre più probabile un’implosione sociale che dalla Francia potrebbe diffondersi in tutta Europa, rendendo il problema politicamente ingestibile. Inoltre, un governo Draghi, con l’attuale equilibrio di forze in Parlamento, avrebbe una maggioranza risicata. E una serie di variabili a livello internazionale (la crisi finanziaria, il possibile calo delle borse, la variabile dell’immigrazione, i possibili conflitti locali che possono determinare il rialzo del prezzo del petrolio e di altre materie prime, il raffreddamento globale in corso che porterà prima o poi a una minore produzione alimentare e a rialzi di prezzo anche in quel settore, ecc.) rende davvero impronosticabile lo sviluppo della crisi economica e finanziaria e di conseguenza lo stress che colpirà le istituzioni e le forze politiche.
L’aggravamento della crisi è dovuto a due fattori molto semplici: il primo è quello di carattere monetario, bancario e finanziario (liquidità eccessiva finita nei mercati finanziari), che dallo scoppio della crisi del 2007 non è stato sostanzialmente modificato; il secondo è dovuto a una crisi demografica che, con la diminuzione della popolazione, rende di fatto impossibile qualsiasi crescita economica e qualsiasi ipotesi di pagamento dei debiti passati.
Si pone tanta enfasi sul debito pubblico, ma è quello privato (delle banche e delle istituzioni finanziarie) che ha creato il problema della crisi attuale. Si pone tanta enfasi sul debito italiano che è al 132% del Pil, ma tutti tacciono il fatto che il debito globale del mondo ha superato il 300% del Pil del mondo. Questa situazione non gestita del debito congiunta col problema gravissimo della denatalità (che vuol dire in concreto mancanza di personale qualificato – situazione già sperimentata da numerose aziende in Italia – e peso sempre più insostenibile della spesa per pensioni e welfare) rendono il peggioramento della crisi inevitabile e di lunga durata.
I poteri finanziari e le loro dipendenze politiche la strada l’hanno già segnata. Ma sono convinto che i popoli possano ancora dire la loro e imprimere una sterzata decisiva. Però occorre che ne siano consapevoli.