Il ballon d’essai sull’ingresso dello Stato italiano nel capitale Stellantis non è uno stupefacente fulmine a ciel sereno. Al contrario: lo Stato è da più di un secolo partner strategico della Fiat. Sono state le gigantesche commesse belliche della Grande Guerra a trasformare in un colosso la piccola “fabbrica italiana auto” nata a Torino a fine ‘800. E lo stabilimento di Mirafiori – nella seconda metà del secolo scorso il più grande complesso industriale d’Europa, che oggi Stellantis minaccia di rottamare – fu finanziato con gli utili realizzati dalla Fiat sugli armamenti forniti all’esercito per l’invasione coloniale dell’Etiopia.
All’inaugurazione di Mirafiori, nel 1939, intervenne personalmente il premier-Duce, ospite di Giovanni Agnelli, senatore del Regno. La strategia – rigorosamente autarchica, “sovranista” – era quella di lanciare una “volkswagen” italiana: un’utilitaria popolare a basso costo. Il progetto sopravvisse con successo alla Seconda guerra mondiale e la motorizzazione fu anzi una delle molle del Boom italiano del dopoguerra, a trazione keynesiana, più Stato che mercato.
Dopo lo shock petrolifero, negli anni ’70 la Fiat fu salvata da uno Stato molto particolare – la Libia del colonnello Gheddafi -, ma pur sempre uno Stato: ancora fresca ex colonia italiana. L’intervento libico fu propiziato da Mediobanca: istituto “centauro” per eccellenza fra lo Stato e un capitalismo nazionale regolarmente “senza capitali”. Gli impianti più giovani del gruppo torinese (come Melfi, al Sud) sono sorti grazie a decisivi contributi pubblici. Pomigliano è stato oggetto di un doppio passo statale: è stato costruito per l’Alfa Romeo quando questa era sotto il controllo Iri; e l’intera Alfa è stata poi dirigisticamente “privatizzata” a Torino nonostante un’offerta competitiva della Ford. La “mobilità lunga” – cioè l’uso della cassa integrazione per gestire esuberi di fatto senza scadenza – è stata inventata per la Fiat. Alla famiglia Agnelli, durante la grande stagione delle privatizzazioni, venne riservata l’opportunità più importante: Telecom, che per due anni fu controllata da Torino, anche se con un investimento inferiore all’1%.
Negli stessi anni, a margine di un’assemblea Fiat, l’avvocato Agnelli sfornò una delle sue gag più durature: diede del “coniglio bagnato” a Roberto Baggio, numero 10 della Juventus e della nazionale, dopo l’avvio incerto dei mondiali in Usa. Ma non fu che una divagazione all’interno della perorazione di una campagna di incentivi pubblici per la rottamazione-acquisto di auto: che poi maturò negli anni successivi, sotto il Governo Prodi-1. Il primo “superbonus auto” con motivazioni ecologiche: le stesse che Stellantis a guida francese agita oggi per ottenere nuovi aiuti pubblici dal Governo italiano.
Nel frattempo le garanzie pubbliche del “decreto liquidità” – varato dal Governo Conte-2 (M5S-Pd) per sostenere il credito alle imprese in piena pandemia – hanno avuto come primo beneficiario la capogruppo Fiat Chrysler Automobiles nella fase finale delle trattative di fusione con PSA. Una linea finanziaria da 6,3 miliardi fu accordata da Intesa Sanpaolo a Torino con quasi integrale garanzia Sace: il fine sostanziale era di far quadrare i conti di Fca – che aveva già trasferito la sede in Olanda – e consentire la distribuzione di un extra-dividendo finale ai soci prima dell’operazione Stellantis.
Nessuna sorpresa, quindi, che l’ipotesi avanzata dal ministro per lo Sviluppo, Adolfo Urso, sia stata presa molto sul serio – forse più quanto desiderasse l’autore stesso – dal péesidente di Stellantis, Jaky Elkann, dai media Gedi e anche dalla Cgil, altro storico “partner strategico” di Torino. Tutti in silenzio sostanziale e interessato. Non è anzi da escludere che Exor – la finanziaria della famiglia Agnelli – abbia raccolto la semi-boutade di Urso immaginando di poter cedere allo Stato (o alla Cassa depositi e prestiti) una parte del pacchetto del 13,8% con cui oggi è primo azionista di Stellantis.
Sono i giorni – questi di inizio 2024 – in cui l’indiana Arcelor-Mittal sta giocando a carte coperte con il Governo italiano sul futuro dell’Ilva di Taranto (sempre al tavolo della transizione green). E non sono passati che due anni da quando Atlantia ha rivenduto le Autostrade a un consorzio guidato da Cdp: ufficialmente come punizione dopo il disastro del ponte Morandi. Nei fatti l’operazione – maturata dal Conte-2 anzitutto per iniziativa dei ministri “dem” dell’Economia e delle Infrastrutture – ha consentito alla famiglia Benetton di vedersi liquidata dallo Stato (a prezzi di mercato e dopo un ventennio di monopolio dei pedaggi costantemente in crescita – la privatizzazione di fine anni 90 (governo Prodi-1, nei fatti “ad familiam”).
Nel frattempo – è quasi ancora cronaca – un altro grande nome del capitalismo nazionale, Pirelli, ha goduto di un aiuto pubblico molto particolare. Nell’estate scorsa, il Governo Meloni – dopo qualche esitazione – ha esercitato i suoi golden power per sterilizzare la quota di controllo (37%) detenuta dalla holding cinese Sinochem. Con il pretesto di fermare l’avanzata cinese in Europa, il Governo ha sodfisfatto il pressing di Marco Tronchetti Provera e rivalorizzato per decreto il suo pacchetto del 14%. Tronchetti Provera ha continuato a governare Pirelli dopo l’ingresso dei cinesi nel 2015, ma ora potrà farlo di nuovo in posizione di azionista di maggioranza, ancorché “virtuale”.
Qualcuno si può stupire che la prima dinastia industriale italiana possa attendersi ora di avere lo stesso trattamento dei Benetton e di Tronchetti Provera? Se non arriveranno benefici industriali a Stellantis, almeno non ne sarebbe penalizzato l’azionista (italiano) di maggioranza.
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