Le Fondazioni italiane di origine bancaria festeggiano i loro primi trent’anni (una Giornata promossa dall’Acri è in programma il 30 novembre a Roma con la partecipazione del Presidente Francesco Profumo e di Giuseppe Guzzetti, leader dal 2000 al 2018).

Fu nelle ultime settimane del 1991 che tutte o quasi le Casse di risparmio e gli altri grandi istituti di diritto pubblico (dal Sanpaolo di Torino al Montepaschi, ai Banchi di Napoli e Sicilia) diedero la realizzazione agli scorpori previsti l’anno prima dalla riforma Amato-Carli. Le banche italiane divennero tutte Spa: pronte per la “lunga marcia” di quotazioni in Borsa, fusioni e acquisizione che hanno completamente ridisegnato il sistema creditizio nazionale, integrandolo nell’Eurozona.



A monte spuntarono – come azionisti inizialmente di controllo totale – delle “Fondazioni” che non avevano parentele in Europa: almeno in quel ruolo. La Loro storia è stata lunga e movimentata: punteggiata in modo decisivo dalla legge Ciampi del 1999 e dalle sentenze della Corte Costituzionale del 2003, che ne hanno dichiarato l’autonomia privata e la loro funzione paradigmatica dell’evoluzione della democrazia italiana nell’orizzonte della sussidiarietà.



Trent’anni dopo non tutte le Fondazioni neonate del 1991 sono ancora vive, anzi: molte non ci sono più o sono ridotte a lumicini. Fra di esse tutti o quasi gli Enti del Sud, ma anche nel Centro-Nord i casi Mps, Carige, Cassamarca hanno lasciato il segno: oltre a quelli che hanno colpito enti minori, azionisti di banche andate in dissesto dal 2015 in poi. Tuttavia – anche dopo la grande crisi finanziaria del 2008 e lo scoppio della pandemia Covid – un’ottantina di Fondazioni controlla ancora un patrimonio aggregato di una quarantina di miliardi, capace di rendere 1,3 miliardi all’anno. Le Fondazioni garantiscono ancora presidio di Intesa Sanpaolo e presenza di azionisti italiani di rilievo a UniCredit e BancoBpm. Una quarantina di Enti partecipa con il 16% – a fianco del Mef – alla Cassa depositi e prestiti: che oggi è sempre più la banca pubblica di ricostruzione e sviluppo.  



In questo bilancio non mancano voci “rosse” – anche larghe ed evidenti -, ma quelle “nere” le superano. Le Fondazioni hanno compiuto la missione loro affidata: promuovendo le aggregazioni e le privatizzazioni e assicurando, quando è stato il caso, ricapitalizzazioni dei grandi poli. Ma anche il rendiconto dell’attività istituzionale – la “core mission” delle Fondazioni – non è affatto negativo: sono oltre una ventina i miliardi erogati dagli Enti finora, sui loro territori, compresi quelli che continuano ad affluire nel Mezzogiorno attraverso la Fondazione per il Sud e quelli convogliati dall’Acri in iniziative di sistema come il fondo nazionale di contrasto alla povertà educativa minorile.

E ora? Le grandi sfide per i prossimi anni paiono almeno tre e sono in attesa di essere discusse al prossimo Congresso nazionale dell’Acri, in programma a Cagliari all’inizio di aprile. Attorno a esso – forse – potrebbe maturare anche un “tagliando” al Protocollo Acri-Mef del 2015, l’ultima “mini-riforma” del settore concordata con l’autorità di vigilanza.

La prima sfida è per certi versi l’ultima ancora da vincere: quella della governance. Se il principio dell’autonomia statutaria delle Fondazioni è stato blindato dalla Consulta, “l’auto-governo” degli Enti resta ancora imperniato in concreto su mix assortiti di designazioni da parte della politica locale, selezioni attraverso diversi “stakeholder” della società civile e cooptazioni di disparati profili di “personalità eminenti”. Le interferenze della politica restano, così come anche qualche rischio di autoreferenzialità. Le regole via via consolidate non sono in discussione: la prassi lo rimane.

Una seconda sfida attiene al riassetto interno della categoria: Attorno alla “top ten” – o poco oltre -, troppe Fondazioni hanno ormai seri problemi di sostenibilità. Molti patrimoni sono troppo piccoli per reggere una gestione efficiente attorno al loro “campanile”: per produrre vera sussidiarietà e non solo distribuire solo poche contribuzioni Bancomat. Un paio di fusioni-pilota (una non marginale fra CassaCuneo e CassaBra) hanno cercato di aprire faticosamente una strada: che però appare ancora tutta da percorrere, con un ventaglio di opzioni tutto da esplorare (prima fra tutte l’aggregazione federale su base regionale o interregionale).

La terza ma non ultima sfida è quella – inattesa – posta dal Pnrr. Non è mancato chi ha approfittato del concitato passaggio dalla stagione dell’emergenza a quella della Recovery per riproporre “contro-riforme” in direzione ri-statalizzatoria: per suggerire nuovamente “espropri” dei patrimoni a favore del bilancio pubblico. È una prospettiva che le Fondazioni possono nuovamente rintuzzare, ma stavolta il confronto non è politico-giuridico come ai tempi del tentativo di riforma Tremonti. Due decenni dopo “l’onere della prova progettuale” è a carico delle Fondazioni: dovranno essere loro a dimostrare di essere soggetti vitali, adulti nella democrazia economica italiana, a cavallo fra Stato e mercato.

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