I rilievi della Commissione europea sulla sostenibilità del debito italiano – e, quindi, sulle politiche economiche attuate e su quelle da adottare – hanno evidenziato alcuni aspetti interessanti di come, in questa stagione giallo-verde, la politica si accosta non solo all’economia, ma a quella che un tempo veniva chiamata “la alta teoria”. Sono aspetti poco notati anche perché gli economisti, sia quelli accademici sia quelli che esercitano la professione altrove (uffici studi, banche, ecc.) snobbano un po’ i politici – pure in quanto non hanno il tempo di seguirli in un vero e proprio vortice di tweet, post su Facebook, partecipazioni a talk show e simili.



In estrema sintesi, la reazione dei due maggiori azionisti del “Governo del cambiamento” ai rilievi europei è che le politiche dell’Italia risolveranno il nodo del debito con una crescita stimolata dal finanziamento in deficit di consumi privati, e più precisamente di trasferimenti alle famiglie sia con sussidi diretti (tramite il reddito di cittadinanza), sia con anticipi dell’età per la pensione (quota 100), sia con riduzione delle imposte sul reddito (flat tax). Non è dato sapere se e quanto il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze concordino con i gli azionisti di maggioranza o se i principali esponenti di questi ultimi abbiano letto, prima di vararlo, l’ultimo Documento di economia e finanza, approvato dal consiglio dei Ministri di cui non solo fanno parte ma sono vicepresidenti: nel documento si scrive a chiare lettere che i primi due provvedimenti non avranno effetti sulla domanda aggregata e, quindi, sulla crescita e che il terzo (la riduzione delle imposte, ancora in fieri) può essere preso in considerazione unicamente se si trova un’adeguata copertura finanziaria.



Tant’è! Si potrebbe dire che negli ultimi giorni, e in attesa d’ulteriori passi delle istituzioni europee, dall’Italia sono partite due nuove correnti del pensiero post-keynesiano, che non hanno ancora la fama di Kaldor, Minsky, Kalecky, Graziani, Pasinetti, Kregel (per citare alcuni dei tanti nomi), ma i cui caposcuola forse aspirano a entrare anche loro in quello che è un “piccolo Olimpo” della politica economica del XX secolo.

Le due correnti hanno, anche tra di loro, delle differenze. Una potrebbe essere chiamata la corrente post-keynesiana “d’accatto”, ossia di coloro che hanno sfogliato frettolosamente qualche “dispensa” o “guida rapida” per prepararsi all’esame di un istituto tecnico in cui si portano anche materie come la politica economica in pillole. L’altra può essere denominata la corrente post-keynesiana “degli accattoni”, che leggiucchiano qualche quotidiano o qualche rotocalco nelle curve di uno stadio dove si guadagnano la vita vendendo panini e bibite.



I post-keynesiani “d’accatto” danno l’impressione di masticare un po’ della “triste scienza”. Ad esempio, fanno riferimento alla manovra di politica economica dei primi anni dell’Amministrazione Reagan (non tanto del Governo Trump, spesso un po’ impropriamente citato); all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso venne effettuata una massiccia riduzione delle imposte (e anche delle tasse) in deficit per dare un colpo di reni a un’economia stagnante o quasi. Non ricordano, o non sanno, che la manovra, concepita dall’allora giovanissimo ministro del bilancio David Alan Stockman, ebbe successo perché accompagnata da un rapido progresso tecnologico (allora nella Silicon Valley decollava la new economy) e da un forte deprezzamento del dollaro che in essenza poneva il costo dell’aggiustamento (ossia la “copertura”) sui partner commerciali e finanziari degli Stati Uniti.

Rievocano l’idea dei “mini bonds” (vietati – ha ricordato il Presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi – nell’unione monetaria) rimasticando relazioni a un convegno sulla dissoluzione dell’unione monetaria sovietica, quando strumenti come i “mini bonds” vennero utilizzati per transitare dal rublo emesso a Mosca a rubli (o altre denominazioni) delle valute degli Stati che avevano deciso, finita l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, di non aderire alla Federazione Russa. In breve, chi ha “malignato” che i mini-Bot potessero essere un tassello sulla via dell’Italexit ha forse commesso un peccato, ma, almeno in parte, ci ha azzeccato.

La corrente “degli accattoni” non rimastica neanche dispense lette male. Però, è apodittica: pronuncia “leggi dell’economia” sulla base dell’asserzione “io sono io”. Poco da consigliare a questi ultimi. Devono trovare la serie di DVD Non è mai troppo tardi, il programma televisivo degli anni Cinquanta in cui il Maestro Alberto Manzi insegnava agli italiani come leggere, scrivere e far di conto. Se si applicheranno, potranno tra qualche anno prendere in mano l’ormai vecchissimo, ma sempre utilissimo, manuale di Paul Samuelson Economia, che nella edizione iniziale era sottotitolato Un’analisi introduttiva.

Ai primi (e a coloro che li consigliano) si suggerisce, invece, la lettura di un volume appena uscito nella collana I Meridiani di Mondadori. È, in effetti, il primo Meridiano dedicato non alla letteratura ma alle scienze sociali. È una nuova traduzione (la prima in settanta anni) de La Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta di John Maynard Keynes, accompagnata da altri scritti dello stesso Keynes. La traduzione è stata fatta da Giorgio La Malfa che l’ha accompagnata da un ricco saggio introduttivo e da ricche note dello stesso La Malfa e di Giovanni Farese. Scopriranno che Keynes scriveva in modo piano e semplice – uno stile non sempre riprodotto nelle precedenti traduzioni – e utilizzava poco la matematica – nonostante la sua prima laurea fosse in matematica.

Troveranno, poi, che non hai proposto di finanziare spesa corrente in deficit, ma di farlo per investimenti pubblici attentamente valutati con lo scopo principalmente di utilizzare a pieno fattori di produzione non completamente impiegati. Da qui si può partire per una visione keynesiana o post-keynesiana che non sia né “di accatto”, né “degli accattoni”.