La settimana che inizia oggi sarà la prima di una breve serie in vista del Consiglio europeo del 18-19 giugno che dovrebbe varare gran parte degli strumenti atti a facilitare la ripresa dell’Unione europea delineati il 23 aprile, segnatamente il Recovery Fund. Sarà una strada in salita in cui l’Italia dovrà dimostrare di saper negoziare con sagacia e, soprattutto, dando prova di senso di responsabilità per giungere a ottenere quanto necessario per uscire da una recessione che si profila drammatica per intensità e anche lunga.



In primo luogo, un cenno alle conclusioni del 23 aprile. La protagonista è stata Angela Merkel -ormai al termine della sua carriera politica attiva. Nel suo discorso al Bundestag prima della riunione ha pronunciato le parole che hanno trasformato in un successo, per l’Ue, quello che sarebbe potuto essere un grave fallimento: “Per noi in Germania riconoscerci nell’Europa unita fa parte della ragione di Stato“, frase determinante quanto il whatever it takes di Mario Draghi nel luglio 2012. Allora venne salvata con tre parole l’unione monetaria. Oggi si dà una nuova prospettiva all’Ue, prospettiva basata su due pilastri: responsabilità e solidarietà.



La Cancelliera tedesca ha poi dimostrato quanto sia forte la sua alleanza con il Presidente francese Emmanuel Macron: ha sgombrato dal tavolo gli altri temi, in gran misura fuorvianti, e ha puntato tutto sul Recovery Fund, proposto inizialmente dall’Eliseo. Se Angela Merkel non si fosse posta al centro del negoziato, si sarebbe probabilmente andati verso una spaccatura, esiziale per il futuro dell’Ue e che avrebbe comportato un prezzo molto salato per un Paese come l’Italia. Verosimilmente, venerdì 24 aprile, lo spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi sarebbe schizzato a 400 (ove non oltre), Standard & Poor’s avrebbe abbassato almeno di una tacca il rating dei nostri titoli di stato, il Documento di economia e finanza avrebbe dovuto esporre una situazione ancora più drammatica di quella che tratteggia e ci sarebbero state serie preoccupazioni per la sostenibilità del nostro debito pubblico (che comunque nel 2021 arriverà, secondo le mie stime, a oltre 170% del Pil).



Per toccare con mano la portata dell’intervento della Cancelliera Merkel, occorre sottolineare, come hanno già fatto su questa testata Alessandro Mangia e Giulio Sapelli, che a pochi giorni dalla camera di consiglio in cui il 5 maggio, a Karlsruhe, la Corte Costituzionale tedesca giudicherà della costituzionale o meno dell’ultima tornata di Quantitative easing deliberata dalla Banca centrale europea, ha avuto il coraggio di utilizzare – credo per la prima volta – l’art. 122 del Testo unico sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue), articolo del Trattato del 2012 che consente alla Commissione di chiedere al Consiglio provvedimenti eccezionali in situazioni eccezionali. Il Recovery Fund è il vero provvedimento eccezionale.

Con l’approvazione in linea di principio del Recovery Fund, è stato sgombrato il campo da due polemiche che “tanto rumor per nulla” hanno destato in Italia: a) quella sul Meccanismo europeo di stabilità e le Outright monetary transactions (Mes-Omt) e b) quella sugli eurobond.

Verosimilmente nelle condizioni attuali è interesse nazionale dell’Italia ricorrere subito allo sportello straordinario del Mes per le spese sanitarie e probabilmente chiedere anche accesso alle Omt, per monetizzare a livello europeo parte del debito incrementale, nonché per avere una strategia economica di riassetto “validata” a livello internazionale (la migliore difesa contro attacchi speculativi). Per quanto attiene ai bond, in primo luogo, non esiste ancora un progetto che sia coerente con il Tfue e, ove esistesse, tali emissioni renderebbero ben poco al nostro Paese. Come ha correttamente evidenziato, Roberto Perotti dell’Università Bocconi: se i Paesi europei emettono Eurobond per 100 euro, e all’Italia vanno 15 euro (la sua quota nel Pil dell’Eurozona), l’unico vantaggio per l’Italia è che si indebiterà per 15 euro a un tasso leggermente inferiore a quello che pagherebbe indebitandosi da sola (ovviamente l’opposto vale per la Germania).

Come impostare allora la trattativa di queste settimane per il Recovery Fund? Essenziale non partire con il piede sbagliato – come si è fatto per il Mes-Omt e per i bond – dovendo poi fare imbarazzanti marce indietro (anche se mascherate agli elettori come “mezze vittorie”). Si deve mostrare responsabilità se si chiede solidarietà e se – come è necessario – si vogliono finanziamenti rapidi che giungano al Paese prima della fine del 2020. Occorre sempre tener presente che l’Ue ha messo sul piatto potenzialmente per l’Italia (se saprà utilizzarle bene) risorse, in termini reali maggiori di quelle utilizzate con il Piano Marshall. L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica si è preso la briga di fare le somme. In base all‘European Recovery Program (Erp) – nome ufficiale del Piano Marshall – dal 1948 al 1952, vennero erogati all’Italia aiuti pari al 9,2% del Pil di quei cinque anni. Erano in gran parte doni e in piccola prestiti a lungo termine (30-40) con un tasso d’interesse contenuto (2,5% annuo). A titolo di raffronto, senza tener conto della possibile nuova linea di credito del Mes e dell’eventuale accesso alle Omt della Bce, nonché del Recovery Fund, le risorse che potrebbero andare all’Italia dall’Ue per il 2020 sono l’equivalente del 15% del nostro Pil.

Ciò vuol dire operare perché il Recovery Fund, che consisterà di emissioni sostenute da un bilancio europeo pari probabilmente al doppio di quello degli ultimi anni (ossia un aumento dall’1% al 2% del Pil dell’Ue), finanzi a lungo termine con bassi tassi d’interesse spese per lo sviluppo intese in senso lato, ossia non solo capitale fisico (come infrastrutture) ma anche capitale umano (come sanità, istruzione) e sostegno alla ripresa delle imprese. A mio avviso, gli organi del Recovery Fund non potranno prescindere da un quadro programmatico per ciascun Paese in cui inserire i singoli interventi e le loro priorità relative. Su questa direttrice, l’Italia potrà – ritengo – ottenere un contributo importante alla propria ripresa e al proprio riassetto strutturale. Se, invece, ci si intestardisce a considerare il Recovery Fund come una fonte di finanziamenti a fondo perduto e di helicopter money che operi come Babbo Natale, si rischia di restare con un pugno di mosche.

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