La settimana scorsa, in occasione della prima seduta del Consiglio della Banca centrale europea da lei presieduto, il nuovo Presidente dell’istituto Christine Lagarde ha portato i componenti dell’organo (Governatori di Banche centrali e membri dell’Esecutivo Bce) in un ritiro informale perché potessero parlare “fuori dai denti”, “al caminetto” e scambiare liberamente idee lontani da microfoni, registrazioni, segreterie e verbalizzazioni. È stato un passo che ha sorpreso tutti, anche in quanto nessuno se lo sarebbe mai aspettato negli anni in cui Mario Draghi era alla guida dell’istituto. È solo un aspetto di forma? O rispecchia una nuova agenda della Banca?
A mio avviso, le determinanti sono molteplici e vanno esaminate con cura, senza cadere nella trappola di alcuni commentatori italiani secondo cui Lagarde vorrebbe fare dimenticare “l’era Draghi” e starebbe per stringere una più stretta alleanza con le banche centrali del Nord Europa. Ci sono aspetti di management style. Christine Lagarde non è un’economista come Draghi, ma prima di avere vari incarichi nel Governo francese e di diventare Managing Director del Fondo monetario internazionale è stata a lungo titolare di un importante studio legale d’affari basato a New York. Negli Usa e al Fmi ha appreso una metodo di gestione molto collegiale, certamente più di quello a cui era aduso Draghi. È consapevole, inoltre, che la Repubblica federale tedesca è l’azionista di maggioranza; nel suo ruolo di Presidente, deve in ogni caso ascoltarne le tesi con attenzione; non deve sorprendere che nelle prime settimane del suo incarico abbia rilasciato interviste soprattutto a testate tedesche.
Altro punto dirimente è la pubblicazione dei verbali delle riunioni del Consiglio Bce. È stata decisa sotto la Presidenza Draghi, il quale la ha accettata (alcuni dicono ingoiata) a malincuore, ottenendo che la versione pubblicata riguardasse i temi e le posizioni, ma non i nomi e i cognomi dei singoli Governatori che prendevano questa o quella posizione. Christine Lagarde vuole trasparenza totale in modo che ciascuno sia interamente responsabile di ciò che dice. Al ritiro informale sembra sia emerso che non tutti condividono questa posizione, ma la Lagarde intende perseguirla con fermezza pari alla sua eleganza. Sua alleata nella trasparenza totale è Isabel Schnabe, un’economista di rango e di valore, anche se molto critica, specialmente negli ultimi tempi, delle posizioni di Mario Draghi e, in questa tornata, nominata da Berlino (la Merkel la ha in grande considerazione) nell’Esecutivo Bce.
Christine Lagarde non ha mai negato di avere idee differenti da quelle del suo predecessore non solo in materia di management, ma anche di sostanza. Nel 2013, quando era Managing Director del Fmi, a fronte delle critiche che si levavano nei confronti dell’austerità che sarebbe stata promossa dal Fondo disse: “Basta chiamarla austerità, meglio dire disciplina”. Fu lei a concettualizzare il commissariamento di Stati laschi con la troika. Ove ci siano state o ci siano pressioni dalla Germania e dagli Stati nordici, hanno, quindi, trovato e trovano un terreno fertile.
Questi aspetti di stile e di carattere, soprattutto, si notano perché le problematiche che ora deve affrontare la Bce sono differenti da quelle che prevalevano negli anni in cui Draghi era al timone dell’istituto. Pochi mesi dopo il suo arrivo a Francoforte, c’era il rischio che l’euro venisse spazzato via della crisi economica e finanziaria internazionale. Quindi ha pronunciato il whatever it takes per difenderlo e varato il Quantitative easing, adottato comunque quasi a rimorchio delle autorità americane. Nel lasciare l’incarico, lo stesso Draghi ha sottolineato i limiti delle politiche monetarie e l’esigenza di politiche di bilancio per gli Stati che, avendo fatto le necessarie riforme, ne hanno la capacità.
Oggi i rischi per l’unione monetaria non provengono da una nuova crisi finanziaria. Anzi, ci sono segnali che una nuova crisi si sta allontanando: negli Usa, da metà ottobre i rendimenti obbligazionari a lungo termine sono tornati a superare quelli dei titoli a breve e il mercato azionario ha mantenuto un andamento positivo.
I pericoli per l’area dell’euro originanti dalla frammentazione sono stati esaminati acutamente da Eric Dor dell’Università Cattolica di Lille in un saggio pubblicato in questi giorni. Dor sottolinea le tendenze divergenti dei flussi finanziari spontanei tra i Paesi del centro e quelli della periferia dell’eurozona. I Paesi del centro sono caratterizzati da flussi netti in arrivo, mentre quelli della periferia da deflussi netti in partenza. Ciò crea differenze profonde tra i sistemi bancari del centro e quelli della periferia. I secondi sono eccessivamente appesantiti da prestiti di bassa qualità. Altro aspetto è il differenziale dei tassi d’inflazione. In questo quadro, una politica monetaria eccessivamente “accomodante” è poco consona ai cittadini dei Paesi in cui il tasso d’inflazione è vicino all’obiettivo del 2% l’anno o anche lo supera (ad esempio, Austria, Belgio, Olanda). La Bce si dovrà chiedere se si può mantenere una politica monetaria uniforme in Paesi con tassi d’inflazione e politiche di bilancio differenti, ove non divergenti. Tanti più che tassi d’interesse nulli o negativi stanno mettendo in serie difficoltà il settore delle assicurazioni.
Lo ha sottolineato molto bene Lorenzo Codogno, a lungo alla guida della Direzione generale Analisi economica del Dipartimento del Tesoro, in uno suo articolo, pubblicato dalla London School of Economics, in cui sottolinea come ci siano solo tre strade per uscire dal pasticcio: a) un più stretto coordinamento delle politiche economiche; b) una sospensione temporanea delle regole (quali quelle del Fiscal compact); c) una vera politica di bilancio europea (con un bilancio europeo adeguato). Nessuno di questi percorsi è di competenza Bce. Che nel contempo non potrà che adottare una politica monetaria meno “accomodante”. Ciò non piacerà certo ai Paesi “della periferia”.