L’attenzione sul Resilience and Recovery Fund come leva europea per la crescita sta facendo perdere di vista altri elementi essenziali del quadro europeo e italiano per l’avvio e il sostegno di una politica di sviluppo dopo vent’anni circa di stagnazione. Due di essi fondamentali sono il debito pubblico e il tasso di cambio. Le implicazioni del primo sono state riassunte efficacemente in un articolo recente di Lorenzo Codogno e Giancarlo Corsetti: varie determinanti (il moltiplicatore di investimenti efficienti ed efficaci quali richiesti dalle autorità europee per l’utilizzazione dei vari fondi messi a disposizione, la forte proporzione di sussidi, il basso costo dell’indebitamento incrementale, le politiche attese nel contesto Ocse) dovrebbero assicurare un tasso di crescita nominale per alcuni anni e, quindi, una riduzione progressiva del rapporto tra debito e Pil, unitamente a una leggera ripresa dell’inflazione.
Il punto centrale – e sul quale c’è poca attenzione – è l’ultimo: la leggera ripresa dell’inflazione. La Banca centrale europea ha, come obiettivo, un tasso d’inflazione del 2% l’anno, tale da sostenere la crescita senza però determinare squilibri interni e nei rapporti finanziari internazionali. Pochi sembrano chiedersi se lo si sta raggiungendo. All’inizio di settembre, la notizia che in agosto l’indice dei prezzi nell’eurozona è stato leggermente negativo ha stimolato qualche titolo nelle cronache economiche dei quotidiani, ma nulla di più. Nessuna voce – che io sappia – si è sollevata per sottolineare il rischio che si stesse entrando in deflazione e i pericoli – economici e politici – a essa collegati.
Ancora più grave, all’ultima riunione del Consiglio della Bce, l’argomento, se è stato trattato, è stato appena sfiorato tra le “varie ed eventuali”: tanto si deduce da una lettura attenta dei comunicati emessi il 10 e il 25 settembre. La prossima riunione del Consiglio dedicata alla politica monetaria è in calendario per il 29 ottobre a Francoforte. Vedremo se da ora ad allora il tema riceverà l’attenzione dei vertici dell’istituto.
Le indicazioni sono, però, che la Bce non sia troppo preoccupata di non riuscire a raggiungere il proprio obiettivo: le previsioni triennali, appena pubblicate, espongono un tasso d’inflazione dell’1,3%. Un tasso d’inflazione così basso implica, a sua volta, che nonostante i forti stimoli di politica di bilancio e gli aumenti del debito delle pubbliche amministrazioni degli Stati dell’eurozona (chi più, chi meno), se ci sarà ripresa nell’area dell’unione monetaria, essa sarà debolissima e non certo da agire da traino per un Paese a stagnazione cronica e con tendenza alla recessione come l’Italia. C’è anche un aspetto più grave, per se ci riguarda indirettamente: la perdita di credibilità di un’istituzione che non raggiunge i propri obiettivi statutari – anzi, almeno per i prossimi tre anni, pare volerli ignorare.
Si potrebbe dire che la Bce sta già utilizzando le armi che ha con il Pandemic Emergency Purchase Program (Pepp, acquisti di titolo di Stato), di cui l’Italia è il principale beneficiario. Si dimentica, però, che il Pepp serve a impedire aumenti dello spread, sterilizzando e tesaurizzando, non a immettere liquidità nell’economia. Una politica monetaria meno “accomodante” di quanto auspicabile per la crescita, accompagnata da una leggera inflazione, ha un corollario: l’apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro e alle altre principali valute sul mercato internazionale. È in atto da alcune settimane. Ed è un altro freno a quella crescita, senza la quale il debito continua ad aumentare, nel suo rapporto con il Pil. Aggravando i nostri problemi.