Prima lo shock della perdita della tripla A da parte del debito pubblico americano. Poi, ventiquattr’ore dopo, la scena che nessun autore di science fiction avrebbe mai osato immaginare: l’ex Presidente degli Stati Uniti incriminato con l’accusa di aver cospirato per rovesciare il responso elettorale. Quasi all’improvviso la superpotenza americana ha mostrato la sua fragilità destinata a protrarsi nel prossimo futuro. È possibile, anzi probabile, che nel 2024, lo sfidante numero uno all’attuale Presidente sia Trump, inseguito da tre mandati della magistratura. Ovvero, se perderà nelle urne finirà in prigione. Altrimenti tornerà ad abitare alla Casa Bianca come se nulla fosse.
Il caso ha voluto che l’inedita ma drammatica congiuntura politica coincidesse con la perdita della tripla A del debito federale da parte dell’agenzia Fitch. Una decisione tanto rara (l’unico precedente di S&P risale al 2011) quanto significativa sul piano simbolico. In realtà, l’effetto pratico della bocciatura è relativamente modesto: negli ultimi anni sono quasi scomparsi i fondi obbligati per statuto a investire solo in titoli tripla A, un club in grave crisi che, prima dei T-bond Usa, ha perduto Francia e Regno Unito assieme ad altri illustri partners. Oggi ormai solo i Bund tedeschi, più o titoli olandesi e scandinavi, rispondono al requisito.
Ma la reazione furibonda della Casa Bianca, nonché la risposta dei mercati dimostrano che il problema del debito pubblico non è un’esclusiva italiana. Anzi, più fattori hanno spinto l’agenzia a mettere il dito sulla piaga della velocità della crescita del debito e sull’assenza di una strategia del suo contenimento. Per carità, non c’è un rapporto diretto di causa ed effetto tra le due notizie. Però il braccio di ferro tra le due Americhe che occuperà tutto l’anno prossimo è lo sfondo ideale di un conflitto ideologico che impedisce di affrontare il problema del debito che sta scivolando verso livelli italiani.
In particolare:
– Il rapporto tra debito e Pil negli Usa è già superiore al 100%, e si prevede un aumento significativo nei prossimi anni. Allo stesso tempo, il deficit di bilancio/Pil è ricominciato a salire, passando da circa il 4% di metà 2022 all’8,5% di metà 2023.
– I costi degli interessi sono aumentati in modo significativo, sia in termini assoluti che di percentuale rispetto al bilancio complessivo. Il rialzo dei tassi della Fed e il conseguente rialzo dei tassi di mercato ha infatti comportato un aumento del costo medio di circa 33.000 miliardi di dollari di debito.
– In termini assoluti, la spesa per interessi è arrivata a raggiungere i 900 miliardi di dollari annui, ossia poco sopra l’ammontare recentemente messo nel budget di spesa militare.
– Nonostante una congiuntura favorevole dell’economia, basata sul pieno impiego e la costante crescita, non c’è stato un recupero dei conti pubblici: il disavanzo quest’anno supererà il 6% del Pil e arriverà all’8% se si includono i costi per la cancellazione di una parte dei debiti universitari.
– Quel che è peggio, però, è che negli ultimi anni è stato chiaro che né i Democratici, né i Repubblicani sono disposti a impostare la politica fiscale su un percorso più sostenibile. La politica economica di Biden, imperniata sui programmi di reindustrializzazione dell’America, fa affidamento sull’espansione della spesa più che su nuove tasse, potenzialmente suicide alla vigilia di un anno elettorale. Anche i Repubblicani, nel caso che tornino l’anno prossimo a controllare il Congresso, promettono qualche spesa in meno rispetto a quello di Biden, ma anche forti tagli alle tasse così come predica Trump.
– Per fronteggiare l’aumento delle spese non resta che l’aumento della carta in circolazione. Il Tesoro Usa ha così rivisto al rialzo l’ammontare di emissioni per il trimestre in corso, portandole da 730 a ben 1.000 miliardi di dollari, anche in vista delle minori entrate fiscali su uno scenario di rallentamento economico.
– A complicare il quadro intervengono altri elementi: il cambio di rotta della Bank of Japan, che potrebbe spingere gli investitori del Sol Levante a non sottoscrivere più le emissioni di T-bond; l’impegno delle banche centrali a ridurre la liquidità in circolazione per combattere l’inflazione.
Al di là di queste e altre considerazioni “tecniche”, non stupisce perciò che Fitch abbia preso atto che l’economia Usa non sia oggi in grado di produrre gli anticorpi necessari per tenere sotto controllo il debito. Di qui la prospettiva che la stagione dei tassi alti sia destinata a proseguire più del previsto per garantire l’accoglienza delle emissioni in arrivo nei prossimi mesi. Non solo carta Usa, beninteso. L’Europa, anch’essa alla viglia di un anno elettorale, si prepara al conflitto a suon di bond sul green deal tra negazionisti e paladini dell’ambiente.
E che dire dell’Italia? Una volta tanto le agenzie di rating non se la prendono con il Bel Paese. Ma è una ben magra consolazione: raccogliere capitali sul mercato ci costerà sempre di più. L’autunno potrebbe essere assai meno soft di quanto sperato.
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