Al termine della settimana scorsa, sono stati diramati due documenti interessanti che meritano un’adeguata riflessione in questi giorni in cui, secondo palazzo Chigi si sta mettendo a punto un nuovo programma di Governo. Si tratta, rispettivamente, della lettera con cui la missione del Fondo monetario internazionale, che ha visitato il nostro Paese, riassume le sue conclusione e il consueto rapporto annuale del Centro Einaudi e di Ubi Banca sull’Europa e l’Italia nel contesto economico internazionale.



Il primo contiene stime a breve termine: il Pil non crescerebbe più dello 0,5% e il Paese resterebbe il fanalino di coda dell’Unione europea se non vengono effettuate riforme coraggiose di abbassamento del carico fiscale e di revisione della spesa pubblica. Attenzione: i dati Istat diffusi venerdì ci dicono che nel quarto trimestre 2019 la crescita è stata negativa (-0,3%). Per giungere agli obiettivi del Governo di una crescita dello 0,6% nel 2020 occorre fare una vera svolta di politica economia tagliando spese improduttive come il “reddito di cittadinanza” e mettendo l’accento sugli investimenti pubblici.



Più inquietante il secondo che guarda anche al medio periodo: l’integrazione economica internazionale si è “inceppata” a causa di varie determinanti (guerre commerciali, incertezza, coronavirus) e ciò penalizza Paesi come il nostro la cui crescita è tradizionalmente trainata dall’esportazione. In breve, tenendo conto della componente internazionale, l’Italia potrebbe scivolare prima della fine del 2020 in una nuova recessione. Lo studio del Centro Einaudi e di Ubi Banca, quindi, implica che per tornare a crescere è necessaria una strategia di nuovo orientamento delle politiche di sviluppo perché siano più e meglio dirette alla domanda interna. Una riconversione non facile e non di breve periodo.



Il processo d’integrazione economica internazionale è, infatti, cambiato. Dalla seconda metà del Novecento e dall’inizio di questo secolo è stato caratterizzato dagli scambi di merci (grazie alla liberalizzazione del commercio mondiale di manufatti e semi-manufatti), da movimenti di capitale (nonostante la poca integrazione dei mercati di capitali anche in aree monetarie come l’eurozona) e in misura molto modesta da migrazioni. Il rallentamento, prima, e la battuta di arresto, ora, riguarda soprattutto gli scambi di merci. In effetti il progresso tecnologico ha diminuito le esigenze di scambi di merci e aumentato quella di scambi di servizi. Nonostante il Gats (General Agreement Trade in Service – Accordo Generale per il Commercio di Servizi) concluso nel 1995, dopo sette anni di negoziati (lo “Uruguay Round”) si è fatto molto poco per liberalizzare gli scambi di servizi a ragione dell’influenza di potenti gruppi di pressione nei mercati anche nazionali dei servizi.

Ma ci sono ragioni più profonde delle difficoltà in questi anni dell’integrazione economica internazionale e del risorgere di nazionalismi e sovranismi. Lo scrisse molto chiaramente il Premio Nobel per l’Economia Gunnard Myrdal in numerosi lavori già negli anni Cinquanta, principalmente nei libri, oggi forse dimenticati, An International Economy del 1957 e Rich Lands and Poor Lands del 1958. Nel 1974 quando gli venne conferito il Nobel per l’Economia, ex equo con Friedrich Hayek, la motivazione parlava “del suo lavoro pioneristico nelle teoria della moneta e delle fluttuazioni economiche e la sua penetrante analisi della interdipendenza dei fenomeni economici ed istituzionali”. Myrdal fu anche uno dei padri dell’econometria e un precursore, secondo alcuni storici dell’economia, del pensiero di Keynes, nonché impegnato in politica attiva in Svezia (fu parlamentare social-democratico per diverse legislature) e alla guida di organizzazioni internazionali quali la Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite, che per decenni è stata il principale canale di comunicazione tra Europa occidentale ed Europa orientale. Una vita multiforme, quindi, con interessi multiformi.

Soffermiamoci su uno dei temi oggetto dei suoi studi: il conflitto tra integrazione nazionale e integrazione internazionale. Da buon socialdemocratico svedese, Myrdal era un fautore degli strumenti che facilitavano l’integrazione nazionale: da quelli del welfare state a soprattutto quelli dell’ascensore sociale per dare pari opportunità a tutti gli appartenenti a una comunità nazionale di arrivare ai livelli più alti della collettività. Da buon internazionalista – Myrdal ha vissuto a lungo, oltre che a Ginevra, negli Stati Uniti (dove ha pubblicato un libro considerato, nel 1944, rivoluzionario An American Dilemma: The Negro Problem and Modern Democracy) – era un fautore di un’economia internazionale più integrata e con meno disuguaglianze tra Paesi ricchi e Paesi poveri. I suoi studi lo portarono a teorizzare una difficile ricerca di equilibrio tra integrazione nazionale e integrazione internazionale. Una ricerca continua per un equilibrio sempre instabile, in termini tecnico-economici si potrebbe dire “un equilibrio alla Nash”.

Quando Myrdal viveva ed era un protagonista della vita scientifica e politica, nessuno avrebbe potuto prevedere che all’inizio del XXI secolo la socialdemocratica Svezia sarebbe stata la culla di uno dei partiti più iper-nazionalisti e più contrari all’immigrazione d’Europa. Ciò è accaduto in quanto, anche perché attirati dal sistema sociale del Paese, in Svezia sono arrivati più immigrati di quanti potevano essere assorbiti senza scalfire quell’integrazione nazionale che gran parte degli svedesi considerano ormai come un diritto acquisito anche e soprattutto a ragione di decenni di sforzi e battaglie fatte dai loro genitori e nonni. L’immigrazione è, senza dubbio, uno dei temi principali del contrasto tra integrazione nazionale e integrazione internazionale. Trovare un punto di equilibrio non è impossibile, ma non è facile e richiede, in ogni caso, l’accettazione di una società fondata sul rispetto delle reciproche libertà individuali e soprattutto delle leggi, dei costumi e dei valori del Paese ospitante.

Integrazione economica internazionale non è solo immigrazione, anche se questo è il fenomeno più appariscente. È libertà degli scambi di merci e servizi che mette a repentaglio attività nazionali cresciute al riparo di barriere protettive. È un più ampio diritto di stabilimento che spinge le imprese nazionali a delocalizzare rami produttivi verso Paesi dove i costi di produzione sono più bassi o le fonti di approvvigionamento più vicine. E via discorrendo. Tutte determinanti che alimentano il nazionalismo economico. Ciò spiega l’equilibrio instabile con cui non è facile convivere e allestire un’adeguata politica economica.

Si sta riflettendo su questi temi là dove si stanno allestendo “cronoprogrammi” per l’azione di governo?