Da una settimana circa, l’attenzione della politica si è spostata sui problemi internazionali: c’è, infatti, una guerra in gran misura guerreggiata quasi alle porte di casa (in Nord Africa) e un conflitto (che rischia di diventare cruento e duraturo) non lontano da noi (in Medio Oriente). Abbiamo tentato di agire da protagonisti per impedire un aggravarsi della situazione, ma alcune mosse tra il velleitario e il dilettantesco ci hanno rapidamente posto tra i comprimari e le comparse.



Necessariamente, alcuni hanno cominciato a chiedersi quali potranno essere le implicazioni economiche su un Paese, come il nostro, con pochi margini di manovra e con uno “sentiero stretto” per evitare che i mercati internazionali abbiano dubbi sulla sostenibilità del nostro debito pubblico già oggi pari al 138% del Pil.



Le prime stime indicano che se la situazione in Nord Africa e nel Medio Oriente resta tale e quale per un semestre, l’Italia rischia una perdita di un punto percentuale di Pil, trasformando il 2020 da anno di lenta ripresa (ma pur sempre crescita) a anno di nuovo inizio di recessione. Ciò a ragione del fatto che il 15% del nostro export si dirige tradizionalmente verso il Nord Africa e il Medio Oriente, che una proporzione consistente del turismo comincia a venire dai ceti ad alto reddito di quelle aree e che l’incertezza è aumentata rapidamente (studi di tre distinte università americane suggeriscono che l’Italia è il Paese del bacino del Mediterraneo in cui gli indici di incertezza sono cresciuti più rapidamente ai primi rulli di tamburi di guerra). L’aspetto più grave e di cui sinora nessuno ha tentato di misurare gli effetti è l’inerzia in materia di politica economica.



Andiamo con ordine. Portata in porto la Legge di bilancio 2020 (che richiede ben 134 decreti attuativi per essere pienamente operativa), si faceva l’ipotesi che il Governo avrebbe puntato a sciogliere il più rapidamente possibile i nodi rimasti in sospeso e, per certi aspetti, aggrovigliatesi ancora di più nei mesi della preparazione e della discussione in Parlamento della manovra di finanza pubblica. Tra questi nodi i principali sono i 160 “tavoli di crisi” al ministero dello Sviluppo economico (tra cui spiccano il futuro di Alitalia e del complesso ex Ilva), le concessioni autostradali, la revisione del diritto pubblico dell’economia (il cui asse è la normativa sulla “prescrizione”) e, soprattutto, la definizione di un programma di crescita (e d’investimenti) per rimettere in moto un Paese che da oltre dieci anni ristagna.

Si dava per scontato che nessuno di questi nodi sarebbe stato completamente risolto prima delle elezioni regionali a fine gennaio, elezioni che hanno assunto un rilievo nazionale, anche e soprattutto a causa dello sfaldamento del Movimento 5 Stelle che nelle consultazioni regionali precedenti e nei sondaggi ha perso drasticamente consensi e anche alle Camere è alle prese con un’emorragia di parlamentari.

Il conflitto in Nord Africa e Medio Oriente, d’altro canto, avrebbe dovuto accelerare, se non la soluzione, quanto meno la definizione delle principali scelte. Con la guerra non distante dai nostri confini e in aree dove l’Italia ha importanti interessi economici, è tanto più necessario essere in grado di poter effettuare una politica economica duttile e in grado di adattarsi al mutar delle circostanze, pur nei limiti di non poter disporre di un “cuscinetto” di riserve per fare fronte a crisi di natura internazionale, dato che nelle ultime Leggi di bilancio (in particolare nelle ultime due) si è data la priorità a spese di parte corrente, per di più finanziate in deficit, che a spese in conto capitale orientate alla crescita.

Invece, la situazione internazionale pare essere diventata un pretesto ulteriore (ossia in aggiunta alle elezioni regionali) per inerzia quasi completa in materia di politica economica. Rinvii si accumulano a rinvii. L’inerzia, attribuita al presunto impegno dei leader nel cercare di contribuire a risolvere l’intrigo internazionale, nasconde profonde anzi profondissime differenze tra i partiti e i movimenti che sostengono il Governo. Nascoste, in qualche modo, durante la formulazione della Legge di bilancio o attutite facendosi cortesie reciproche, ora si manifestano apertamente. In una prima fase, il Partito democratico si è quasi sdraiato sulle tesi di politica economica del M5S, sperando in tal modo di attirarlo verso un’area di centrosinistra; si è ora reso conto che in tal modo non solo ha subito una scissione (di Italia Viva), ma rischia di perdere il proprio elettorato tradizionale, proprio mentre il M5S dà segni di sbriciolamento. Ora le posizioni si irrigidiscono e i compromessi sono più difficili. Ed è fin troppo facile sostenere che la determinante principale, o almeno, una delle determinanti principali è il quadro internazionale.

È difficile quantizzare il costo dell’inerzia, anche se ci sono metodi, come quello delle opzioni reali che consentono di farlo se si dispone di una vasta mole di dati. È noto, però, che per un’economia “su un sentiero stretto” è molto elevato. Se non raddrizza presto la rotta, non aspettiamoci un 2020 “bellissimo”.