I dieci giorni decisivi per i destini dell’Unione europea hanno preso il via giovedì sera con il rifiuto di Giuseppe Conte di siglare il documento di chiusura dell’ultimo vertice europeo. Lo stesso Premier italiano, spalleggiato dalla Spagna, ha fissato il termine dei dieci giorni per individuare una linea di politica fiscale adeguata a fronteggiare la peggior crisi economica e sociale dell’ultimo secolo. Perché, come ha sottolineato Mario Draghi, o il mondo individua un sentiero per limitare danni ed effetti collaterali del coronavirus oppure si rischia di tornare alla miseria e alle ingiustizie degli anni Venti.



E non siamo poi così lontani dal baratro, vien da pensare, dopo aver letto su The Wall Street Journal in un servizio dedicato all’abnorme aumenta della disoccupazione Usa (3,3 milioni di posti di lavoro perduti nell’ultimo mese), l’intervista a un operaio di Chicago, padre di tre minori, che dopo aver perso il lavoro dice: “Prego di non ammalarmi, altrimenti è la fine”. Non basterebbe di sicuro, in caso di infermità, i fondi stanziati dal Congresso per affrontare un ricovero senza disporre di assistenza sanitaria. E c’è chi sta peggio nell’esercito dei clandestini senza permesso di soggiorno che garantisce i servizi essenziali di metropoli come New York.



Val la pena ricordare l’altra faccia dell’America First in un momento così delicato per la “vecchia” democratica e solidale Unione europea, piena di difetti e afflitta dai mali dell’autolesionismo. Ma ancor oggi l’unico sistema che attribuisce un valore pieno alla vita umana. Da noi non è nemmeno concepibile l’indifferenza cinica con cui Trump ha sostenuto la necessità della piena ripresa dell’attività economica entro Pasqua. “Tanto – ha detto il tycoon – muore più gente per gli incidenti stradali che per un’epidemia”. L’Europa poggia su valori ben diversi. Ma, una volta individuato un minimo comun denominatore dell’identità europea, non possiamo non prendere atto della crisi dell’Unione, alle prese con l’esplosione del debito, destinato a salire e a minacciare il tradizionale confine tra i “ricchi e laboriosi” Paesi del Nord e l’area mediterranea “pigra e spendacciona”. Il debito rischia di travolgere le radici del consenso che tiene assieme le radici dello Stato sociale.



Di qui la proposta che si intravvede dietro la ricetta di Mario Draghi: lo Stato deve farsi garante del debito necessario a superare questa crisi, emettendo garanzie senza preoccuparsi del debito pubblico e immettendo forti quantità di denaro nel sistema da dare alle persone e alle aziende. È una ricetta amara ma realistica, spiega l’ex banchiere centrale, assai più dei piani fantasiosi di rientro dal debito: chi ci crede che l’Italia, ormai destinata a salire a un rapporto debito/Pil del 145%, possa invertire la rotta? Al contrario, è assai più probabile che la Germania, già impegnata in una dispendiosa politica di conversione dell’industria automobilistica e una rivoluzione verde dai confini nebulosi, sia destinata a rinunciare all’attivo di bilancio, difeso solo per motivi di retorica politica più del buonsenso.

Il debito continuerà a crescere un po’ ovunque, secondo una logica giapponese: tassi sempre più bassi, anzi interessi negativi, gli unici che possono essere sopportati da aziende oberate di debito e che non possono liberarsi della manodopera in eccesso. Non ci vorrà molto, insomma, perché Lufthansa non finisca con assomigliare all’Alitalia, azienda fino a ieri votata al fallimento, oggi in attesa di esser reinserita tra i gioielli di Stato.

Insomma, sotto i cieli della crisi, i bilanci pubblici tendono a convergere. Per carità, è un paradosso. Ma la distanza tra Nord e Sud non è più quella della crisi greca. E, complici problemi della globalizzazione, la Germania è ormai consapevole che il suo futuro non può esser legato solo ai destini del cliente cinese. E che dire del debito pubblico? Olivier Blanchard, già capoeconomista del Fmi, mesi fa dichiarava: “Perché la Francia si deve spremere per ridurre un deficit di pochi decimali quando i tassi di interesse sono a zero?”.

Perché in questo quadro è così difficile trovare un accordo che contempli gli interessi di Nord e Sud? È un problema che ha molte spiegazioni dalla storia alla politica al contrasto ai fantasmi del passato. Ma, come insegna Mario Draghi, la soluzione più logica e convincente passa dall’Europa, sostenuta dal diluvio di liquidità, più povera ma più solidale, capace di imporsi agi interessi dei potentati economici e di far giustizia delle illusioni sovraniste. Ben venga, perciò, la levata di scudi di Conte: una situazione nuova e inedita richiede coraggio e onestà. Altrimenti? “Faremo da soli”, dice l’avvocato che siede a palazzo Chigi. Talvolta un bluff funziona. Ma non esageriamo. Difficile che sia lui il Grande Timoniere della svolta. È una stagione fatta per i draghi, pronti a sfidare il mostro del populismo con le sue stesse armi, non per i legulei.

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