A giudicare dai mercati non ci sono dubbi: l’economia, inchiodata dallo scorso settembre a tassi pari al 4% o più (4,50% il Main Refinancing Operation Rate e al 4,75% il Marginal Lending Facility Rate), registrerà d’ora in poi almeno un paio di tagli al costo del denaro per un totale di un centinaio di punti entro fine anno. A confermare il miglioramento della finanza pubblica contribuisce la discesa dello spread, scivolato attorno ai 130 punti, contro i 220 toccati durante l’ultima campagna elettorale. Il clima di fiducia attorno al debito italiano è confermato dall’ottima accoglienza alle emissioni di casa nostra, culminata nella raccolta attorno ai 20 miliardi per il Btp Valore. Per avere una misura del gradimento del pubblico (non solo solo italiano) basti dire che negli stessi giorni un’offerta del Tesoro belga è andata quasi deserta.
L’impressione positiva non cambia se si guarda al listino azionario. Certo, non si ferma la fuga dalla Borsa italiana che continua a perdere matricole senza attrarre nuove società. È vero che non mancano le proposte di società piccole o piccolissime, ma tra i potenziali Big non si fa avanti nessuno. Essilor Luxottica, per fare un esempio, ha lasciato cadere la promessa di un dual listing Milano/Parigi (evidentemente inutile). Ma è assai più clamoroso il caso di Prada, da più di dieci anni trattata alla Borsa di Hong Kong senza alcuna velleità di rimpatrio. Con buona pace dei sovranisti, i mercati finanziari sembrano immuni dal nazionalismo economico che ha pur fortemente danneggiato l’economia globale.
Ma la sensazione è che il peggio deve ancora arrivare. A giustificare il nervosismo è l’avanzata a valanga dei sostenitori di Donald Trump, finora trionfatore in tutto i test pre-elettorali, vuoi per la debolezza di Joe Biden e della sua vice Kamala Harris, vuoi per i limiti della campagna elettorale democratica, incapace di far valere di fronte agli elettori i risultati ottenuti i termini di occupazione e di tenuta dei redditi. Sarà presto il caso di occuparsi di questo strano malessere degli elettori, pur premiati dal mercato azionario che si è allargato a fasce popolari e dall”aumento dei salari (vedi l’auto). Ma prima è il caso di chiedersi cosa può comportare per noi europei la simpatia per Trump.
Nulla di buono a giudicare dall’astio del tycoon per il Vecchio continente, da lui accusato di aver succhiato la ruota della grande America, sfruttando l’impegno Usa per la difesa comune, senza contribuire alle spese. Ovviamente, non è un semplice richiamo finanziario. Trump ritiene che gli europei non siano in grado di sviluppare una politica comune sul fronte della difesa. O, comunque, di indossare gli anfibi per affrontare una sfida on the ground. L’Europa, agli occhi di Trump, è un’assemblea di mercanti che non intendono mettere a repentaglio il proprio benessere. Nemmeno per quei valori universali che sono all’origine della democrazia. Di lì il disprezzo del tycoon texano per la politica di Bruxelles, peraltro già in grave difficoltà in un pianeta che si avvia allo scontro di civiltà senza rispetto alcuno per i diritti dei più deboli, ogni giorno più calpestati.
Non ci deve stupire in questo quadro la logica da re barbaro che Trump intende adottare nei rapporti internazionali. Ovvero, imporre, nella logica dei rapporti di forza, dazi del 10% su tutte le importazioni dal resto del mondo, Europa inclusa. Ma anche una gabella al 60% su tutti i prodotti cinesi. E, a dimostrazione del primato yankee, pure il controllo politico sulla Federal Reserve, che va usata per finanziare sistematicamente i maxi-deficit federali degli Stati Uniti creando moneta per comprare titoli americani, con conseguente indebolimento del dollaro. È la logica di Attila applicata all’economia seguendo la filosofia che il più debole deve pagare la protezione al più forte nel più puro stile mafioso.
Andrà così? Non è detto, ma bisogna prender atto che il quadro internazionale, scosso per giunta dallo spettro dell’immigrazione, è drammaticamente peggiorato. Specie per l’Italia e la Germania, i partner Ue più sensibili all’andamento dell’import/export.
Una situazione velenosa che ha un solo antidoto: investire, come ha detto Mario Draghi, volumi enormi di capitali in tempi brevi per la transizione verde, per la difesa. E per il digitale. Almeno 500 miliardi di euro, calcola Draghi, frutto di investimenti pubblici ma anche di risparmio privato. Un costo enorme, sopportabile solo se accompagnato da una visione comune sul futuro.
Un’esagerazione? No, spiega Filippo Taddei di Goldman Sachs. Da più di dieci anni gli Stati Uniti hanno fatto investimenti produttivi, cumulati, per circa duemila miliardi di dollari in più dell’area euro. L’effetto si vede nell’accelerazione americana di produttività e reddito alla quale noi europei non riusciamo più a tener dietro. Perdiamo terreno ogni anno. Non solo verso gli Usa, ma anche nei confronti della Cina. È evidente, nessun Paese può sfidare da solo le invasioni barbariche.
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