Si è fatto attendere il giudizio di Moody’s sul debito italiano, anche se, peraltro, stavolta la vigilia è stata meno frenetica. La previsione generale, del resto, era che Moody’s, in linea con quanto già detto da Standard & Poor’s e da Fitch, avrebbe confermato il rating, favorendo per i titoli domestici, azioni e Btp.



In attesa di questa promozione, il neo ministro Roberto Gualtieri lavora a una manovra che probabilmente sarà cautamente espansiva, ma senza grandi misure straordinarie, che potrebbero essere introdotte successivamente grazie al maggior risparmio sul costo del debito.

Guai a privilegiare la politica degli annunci che non possono essere rispettati. Come ammonisce l’economista Carlo Cottarelli, “per evitare l’aumento dell’Iva e coprire un paio di miliardi di spese indifferibili servono 25 miliardi. Dall’effetto delle manovre fatte a giugno per evitare la procedura d’infrazione e tenendo conto anche della riduzione dei tassi di interesse si tirano fuori 10 miliardi. Bisogna trovarne altri 15. Il fatto che i tassi di interesse siano più bassi un po’ aiuta, fa risparmiare un po’ di soldi, ma nell’immediato l’impatto è abbastanza limitato. Non è impossibile evitare l’aumento dell’Iva, ma fare questo e tante altre cose non è possibile”.



Inutile alimentare attese che rischiano di trasformarsi in altrettante delusioni. I margini di manovra italiani sono molto modesti e non possono che passare dall’Europa.

Da questo punto di vista, la notizia più importante riguarda la frenata della produzione industriale tedesca. Una buona notizia, in un certo senso, perché suona a stimolo per un’azione energica delle autorità monetarie a pochi giorni dal prossimo direttorio della Bce. Ma una notizia inquietante, anzi pessima, perché la frenata d’oltre Reno pesa anche sull’industria italiana, strettamente connessa con quella tedesca.



Al di là della sceneggiata mediatica che ha assorbito l’attenzione degli italiani da più di un anno, in cui il Paese ha perso velocità nella crescita e dilapidato capitali fomentando la paura sull’adesione italiana alla moneta unica, proviamo a ripartire grazie al risparmio sugli interessi del debito pubblico. E grazie all’Europa, l’unica che può (e finora non ha voluto) mettere in circolo i capitali per riavviare la macchina dello sviluppo e così ripartire, superando le sabbie mobili della crescita economica, l’unica vera emergenza di un Paese che ha perso quasi il 20% di reddito dall’inizio del Duemila.

Insomma, o si riparte oppure prevarrà il populismo. Alternative non ce n’è, sia per noi che per altri partner Ue a corto di capitali. Ma anche per chi come la Germania, non potrà probabilmente più contare sulle virtù di un export scintillante, ma deve modificare il suo modello di sviluppo.

Speriamo che lo capiscano. Ma speriamo anche che, finalmente, l’Italia sappia ispirare non solo simpatia, ma anche fiducia. L’occasione è propizia, non sprechiamola.