Joe Biden non ha perso tempo. Da Wilmington, la sua casa nel Delaware, il neo-presidente ha, come previsto, annunciato un piano da 1.900 miliardi di dollari di aiuti e stimoli all’economia, sempre più urgente a fronte dell’aumento esponenziale delle richieste di cassa integrazione e della pressione della pandemia. Di qui la necessità di accelerare il pacchetto di aiuti alle famiglie e alle piccole aziende, per far uscire il Paese dalla crisi causata dalla pandemia di Covid-19. Biden ha aggiunto che nelle prossime settimane presenterà anche un piano d’investimenti per un’economia verde, che dovrebbe creare milioni di posti di lavoro.



L’operazione di oggi che comprende 456 miliardi di dollari da distribuire a pioggia con assegni da 1.400 dollari a persona, si somma ai 3.900 miliardi di dollari già arrivati. In tutto, gli Stati Uniti hanno varato misure pari a circa un quarto del Pil. Le risorse sono tutte da finanziare con nuovo debito. Ma non ci dovrebbero essere problemi per la manovra messa a punto da Janet Yellen, presto al Tesoro, ovviamente in stretto contatto con i suoi vecchi uffici della Fed oggi occupati dal repubblicano Jerome Powell finalmente liberato dalla morsa di Donald Trump che in questi anni l’ha insultato un giorno sì, l’altro pure.



Partecipando a un forum organizzato dall’Università di Princeton, il governatore della Federal Reserve ha detto che i tassi resteranno bassi per molto tempo e gli acquisti di obbligazioni andranno avanti al ritmo e nella quantità fissata. La situazione di emergenza persiste e siamo ben lontani, ma tanto lontani, dal momento in cui si potrà a cominciare a discutere di un ritorno alla normalità. Powell ha voluto ribadire il concetto, affermando che non è neanche opportuno parlare di un rallentamento degli stimoli perché è un argomento delicatissimo, “abbiamo imparato la lezione del passato”: il mercato, quando si accenna a queste cose, è attentissimo e sensibilissimo, meglio evitare di sollecitarlo, come avvenuto nei giorno scorsi da parte di alcuni membri del Federal Open Market Committee. Cose analoghe le hanno dette l’altro giorno in serata, il vicepresidente della Fed, Richard Clarida, e il governatore Lael Brainard.



Sulla base di queste indicazioni il Treasury Note a dieci anni ha rimesso la marcia indietro. Senza alcun timore per l’inflazione che pure, secondo alcuni, è già in rampa di lancio in attesa che la seconda ondata di interventi di Biden, stavolta concentrati sulle infrastrutture e l’energia verde, non ne provochi il decollo. È del resto difficile capire quanta inflazione c’è già adesso. Certo, ci sono le statistiche ufficiali, ma queste sono sempre meno tarate sulla realtà. In primo luogo, i funzionari che raccolgono mensilmente i dati non escono più dal loro ufficio (o dalla loro casa) e si affidano ai prezzi di catalogo e a qualche telefonata sul campo senza possibilità di verifica. In secondo luogo, ancora più importante, i panieri dei beni su cui si raccolgono i dati sono ancora quelli pre-Covid e assegnano un peso rilevante a cose e servizi che non si usano quasi più, come i voli aerei, i pasti fuori casa, spettacoli e concerti e notti in albergo e assegnano lo stesso peso di prima ai pasti in casa, sui quali l’inflazione è alta.

Non è difficile del resto prevedere che, una volta avviata la ripresa, i prezzi usciranno dalla spirale dei tassi negativi in Usa e in Europa. Quali le conseguenze? Quanto all’Europa, l’euro in questi mesi ha corretto la sua sottovalutazione, ma adesso, commenta Alessandro Fugnoli, comincia la parte più difficile da accettare per la Germania. “Per evitare un ulteriore rafforzamento dell’euro – scrive – bisogna che il differenziale rispetto ai tassi americani torni ad allargarsi e questo, a sua volta, richiede altri massicci interventi di Qe da parte della Bce”. La politica fiscale Ue non potrà perciò discostarsi troppo da quella americana, fortemente espansiva. Una bella notizia, finché le follie di casa nostra non spingono gli altri a creare un cordone sanitario nei nostri confronti. Fare diversamente significherebbe riprodurre gli errori dell’austerità del 2011-12, ovvero fare normalizzazione fiscale in una fase di euro forte, un doppio colpo difficile da assorbire anche in un contesto di ripresa ciclica globale.