Quella di mercoledì è stata una giornata importante per le decisioni prese da Fed e Bce. La banca centrale americana ha infatti deciso di alzare i tassi dello 0,75%, più di quanto inizialmente previsto, per cercare di frenare l’inflazione, mentre quella europea ha annunciato che i tecnici metteranno a punto uno strumento anti-spread dopo il forte aumento dei differenziali tra i titoli di stato dei Paesi “core” e “periferici” alla fine della scorsa settimana conseguentemente alle decisioni adottate dall’Eurotower (rialzo dei tassi e fine del programma App).
Secondo Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, questo nuovo “scudo” «con tutta probabilità tenderà a mettere un’etichetta sui Paesi più vulnerabili. Il che paradossalmente rischia di far precipitare un problema che si vuole invece risolvere».
Cominciamo a fare il punto sulle decisioni e gli annunci di mercoledì da parte delle due banche centrali.
Quello che emerge con chiarezza è che c’è stata una grave sottovalutazione del grado di persistenza e anche del livello della dinamica inflazionistica che abbiamo osservabile fin dalla scorsa estate. Negli Usa ciò è ancora più pronunciato, perché affrontano un’inflazione da domanda aggregata, che riflette anche l’importante entità del pacchetto di aiuti che l’Amministrazione Biden ha erogato lo scorso anno. C’erano quindi tutti gli elementi per un intervento della Fed, la quale ultimamente ha deciso di correre ai ripari.
Rispetto a cosa?
C’era una sorta di convinzione che il rialzo dei prezzi avesse raggiunto un picco nei primi mesi dell’anno. Eppure gli ultimi dati hanno mostrato che non è così, perché a maggio l’inflazione è arrivata al +8,6% tendenziale, ai massimi da 40 anni. Per questo la Fed ha deciso di aumentare i tassi dello 0,75%, rispetto alle attese, alimentate precedentemente dalla stessa banca centrale americana, dello 0,5%. Questa cura da cavallo probabilmente costerà agli Stati Uniti una recessione, se non un significativo deterioramento delle prospettive di crescita. C’è da dire che i mercati hanno salutato positivamente questa stretta, a differenza di quanto avvenuto la scorsa settimana nell’Eurozona.
In Europa, come sappiamo, l’inflazione è però di tutt’altra natura…
È proprio così. Se negli Stati Uniti è prevalentemente da domanda, nell’Eurozona l’inflazione è sospinta soprattutto dal rincaro dei prezzi delle materie prime energetiche e agroalimentari. Gli ultimi dati ci hanno mostrato, tuttavia, che gli incrementi significativi di questi due comparti si stanno trasmettendo anche alle altre componenti dell’indice dei prezzi. Questo ha fatto sì che la Bce annunciasse la settimana scorsa la fine del programma di acquisto di titoli di stato App dal 1° luglio e l’incremento dei tassi di interesse il mese prossimo e a settembre, mosse in qualche modo attese. C’è però un’importante differenza strutturale tra Eurozona e Stati Uniti.
Quale?
Riguarda i mercati dei titoli di stato. L’Eurozona è un’unione monetaria di 19 Paesi, parzialmente responsabili per la loro politica fiscale. Si tratta di economie eterogenee tra loro: ve ne sono alcune dai fondamentali più forti e altre più deboli. Questo agevola la formazione di equilibri multipli con i mercati finanziari che assumono posizioni speculative contro le economia dell’Eurozona percepite come più fragili. Non è un caso che giovedì, dacché è stata annunciata la decisione della Bce, i Paesi più vulnerabili abbiano sperimentato un maggior incremento dei rendimenti dei titoli di stato: quelli dei Btp hanno superato la soglia del 4%, un valore che non si vedeva dal 2014. L’Eurozona, a causa della sua costruzione incompleta, agevola il formarsi di aspettative speculative contro le economie più fragili. Di qui l’esigenza della Bce di intervenire per stabilizzare le aspettative.
Come può intervenire per farlo?
Lo può fare annunciando che metterà in campo una potenza di fuoco massiccia come ha fatto mercoledì. Anche se l’annuncio è stato incompleto. La Bce ha ribadito che si avvarrà della flessibilità insita nel reinvestimento dei titoli acquistati nell’ambito del programma Pepp, pari attualmente a circa 1,7 trilioni di euro, che giungeranno in scadenza senza seguire la regola del capital key. I Paesi più fragili ne avranno, quindi, un vantaggio. Si tratta, però, di uno strumento già presente nella cassetta degli attrezzi della Bce. C’è da chiedersi se sarà sufficiente.
Lei cosa pensa in merito?
Credo che i mercati stiano testando la Bce e quindi la sua disponibilità a governare lo spread.
Perché quello della Bce è stato un annuncio incompleto?
La Bce ha spiegato che sta lavorando su uno scudo anti-spread. Peraltro ne esiste già uno, l’Omt introdotto nel 2012 dall’allora Presidente Draghi e mai attivato. Come sappiamo prevede che il Paese che lo richieda aderisca a un programma di aggiustamento macroeconomico del Mes. Questo è un aspetto importante, credo che lo ritroveremo nei prossimi mesi, perché nella misura in cui lo scudo prevedesse una condizionalità dispensata e monitorata dal Mes, probabilmente quest’iniziativa rischierebbe di alimentare ulteriormente un rialzo dello spread piuttosto che stabilizzarlo. Forse proprio per questo la Bce considererà un meccanismo magari con un perimetro temporale e un ammontare più limitati, senza però avvalersi del Mes.
Una soluzione certamente migliore dell’Omt…
Sì, perché come abbiamo visto negli scorsi mesi, ormai il Mes è associato a situazioni di enorme criticità per cui i Paesi hanno perso l’accesso al mercato o stanno per perderlo. Si è, quindi, rafforzato lo stigma per cui ricorrere al Mes significa essere in condizioni disperate. Occorre invece agire nella direzione contraria, cioè far sì che un Paese che finora è stato in una situazione non critica non possa essere messo nell’angolo dalla speculazione, penalizzandolo oltremodo.
Se non è il Mes a dispensare e monitorare le condizionalità chi può farlo? La Commissione europea?
Sì. La Commissione europea ha già stabilito un’agenda di condizionalità con riguardo al Pnrr ed è, però, concentrata su aspetti strutturali della nostra economia. Esiste poi un’altra fonte di condizionalità determinata dalla riattivazione del Patto di stabilità. Diventa pertanto cruciale la riforma che eventualmente ne verrà fatta. A mio avviso se la Bce delineerà uno scudo non agganciabile al Mes, probabilmente sarà collegato al Patto di stabilità e ci sarà, quindi, minor spazio di manovra per conseguire una riforma fondata su obiettivi di lungo periodo con flessibilità nel breve per poterli raggiungere. A proposito del Pnrr credo, poi, sia importante segnalare un problema.
Prego.
L’Italia sta uscendo dalla crisi pandemica con la sua economia in ginocchio e la crisi russo-ucraina che la sta prostrando ulteriormente per via di scelte poco sensate nella politica energetica. Inoltre, la normalizzazione della politica monetaria avviata dalla Bce comporterà un costo più alto per il rifinanziamento del debito pubblico. In questa situazione critica l’unica via d’uscita è avvalersi di tutte le risorse fornite dal Ngeu. Ma l’anno scorso l’Italia ha speso solo 5,1 dei circa 13,7 miliardi previsti dal Pnrr per vecchi progetti. Se questa grave anomalia nella capacità di assorbimento dei fondi europei, presente da decenni ma che tra l’altro il Pnrr avrebbe dovuto correggere, dovesse persistere, per il nostro Paese le cose si metterebbero davvero male, perché la sua economia verrebbe attaccata da tutti i fronti. Dinanzi a questo possibile mix esplosivo sono necessari interventi straordinari su due aspetti.
Quali?
Occorre fare in modo che gli investimenti previsti vengano realizzati, fornendo assistenza tecnica agli enti locali che sono poi i motori di questi investimenti. Inoltre, vanno previsti dei meccanismi di adeguamento dei prezzi, perché quelli alla produzione dell’industria ad aprile hanno fatto registrare un aumento tendenziale di circa il 23% e questo può avere come conseguenza un ritardo ulteriore nell’esecuzione degli appalti. Se non si effettuano degli interventi straordinari, anche normativi, per cercare di correggere queste dinamiche, probabilmente finiremo per registrare ulteriori ritardi rispetto a quelli storicamente prevedibili.
Un altro aspetto importante è capire se lo scudo anti-spread della Bce verrebbe attivato su richiesta di un Paese o se invece, come nel caso dell’App o del Pepp, agisse in automatico per tutti.
Questo è un aspetto dirimente, perché se fosse il Paese a richiedere l’intervento della Bce vi sarebbe uno stigma, un segnale negativo ai mercati. L’Italia ha dei fondamentali economici diversi dalla Germania, e questo comporta un rendimento diverso dei titoli di stato, ma non c’è una scienza esatta che dice di quanto deve essere lo spread tra Btp e Bund. Su questo tema ci sono visioni diverse all’interno del Consiglio direttivo della Bce: i falchi vogliono che l’Italia sia tenuta sotto pressione, anche con uno spread più elevato; altri membri ritengono, invece, che in un’unione monetaria i differenziali debbano essere ricondotti a dei valori non eccessivi, difficilmente quantificabili ex ante, ma comunque non penalizzanti. Esiste, quindi, un gap nella scienza economica su cui naturalmente poi si innestano le posizioni politiche dei vari rappresentanti in seno al Consiglio direttivo. È bene quindi che l’Italia si prepari.
In che modo?
La nuova fase che si è aperta da giovedì scorso perdurerà nel tempo, così come l’inflazione relativamente alta che stiamo osservando da quasi un anno. Mentre discutiamo delle caratteristiche ideali del nuovo scudo, è importante per l’Italia prepararsi e avviare un proprio percorso di riforme perché è imperativo tornare a crescere. Si era detto che il Pnrr avrebbe dato all’Italia lo stimolo per aumentare il tasso potenziale di crescita e ridurre anche il debito pubblico su Pil. Purtroppo, da quel che vediamo, finora il Pnrr rimane saldamente ancorato, ma sulla carta. Come ho notato, nel 2021 i fondi legati al Pnrr sono stati spesi per un ammontare modesto rispetto a quello programmato e per finanziare progetti già avviati, non addizionali. Siamo ancora all’inizio, i fondi che verranno erogati in questo e nei prossimi anni saranno sostanziali e non possiamo permetterci di spenderne solo un terzo.
L’annuncio della Bce di mercoledì ha avuto sui mercati un effetto diverso da quello del whatever it takes del 2012. Questo forse anche perché si è capito che il nuovo strumento non sarà come il Pepp o l’App?
Il Pepp era uno strumento simmetrico, mentre il nuovo scudo in qualche modo discriminerà i Paesi “buoni” da quelli “cattivi”, tenderà a mettere un’etichetta su quelli più vulnerabili. Il che paradossalmente rischia di far precipitare un problema che invece si vuole risolvere. Credo, poi, che la reazione dei mercati rifletta diverse componenti.
Quali?
Un primo elemento è legato al fatto che è stata annunciata la futura introduzione di un meccanismo di cui però non si sono forniti dettagli lasciando i mercati con la tentazione di testare la solidità diq questo impegno. Un altro elemento deriva dal fatto che l’Italia è stata aiutata in modo sostanziale dalla Bce in questi anni di pandemia, ma si sta facendo cogliere impreparata in questo momento di normalizzazione della politica monetaria perché le riforme che erano state promesse non vengono portate in porto o vi arrivano con risultati modesto, soprattutto cominciano a emergere dubbi sull’attuazione del Pnrr. Gli operatori si chiedono, quindi, che prospettive di crescita reali abbia l’Italia, soprattutto in un frangente in cui il contesto internazionale è particolarmente sfavorevole. I fari sono puntati su di noi: non è un caso che, quando si parla di scudo, gli osservatori lo riconducano subito al nostro Paese. C’è attesa, ma anche un po’ di pessimismo sulla situazione italiana, il Governo deve, quindi, lavorare per correggere questo pessimismo e mostrare di correggere la percezione di stallo che si sta consolidando.
Come?
Con le azioni, dimostrando che i fondi europei vengano effettivamente spesi e bene e che le riforme che erano state promesse vengano condotte in porto e con risultati significativi. La prossima relazione sullo stato del Pnrr verrà inviata in Parlamento a breve.
(Lorenzo Torrisi)
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