“Se non fosse per le sofferenze inflitte a 84 milioni di turchi, sarebbe davvero affascinante seguire l’esperimento economico imposto da Erdogan”. Parlando così Refet Gurkaynak, professore di economia dell’università di Ankara, ha posto l’altro giorno le premesse per la sua disgrazia accademica o, peggio, per la sua incarcerazione.
La Turchia, infatti, rappresenta ormai un’eccezione irripetibile nel concerto delle Banche centrali. Erdogan insiste nel sostenere che il calo dei tassi, a lungo andare, è una medicina contro l’inflazione perché favorisce l’export e, di riflesso, l’occupazione. Una tesi che vale senz’altro il premio “terra piatta” e magari il plauso dei più irriducibili no vax che senz’altro sentono odore di complotto contro il Sultano nel mirino degli odiati banchieri che, di fronte ai ripetuti tagli dei tassi, hanno più che dimezzato il valore della lira. Per tutta risposta Erdogan ha reagito aumentando la paga media dei lavoratori del 50% in lire, pari a -27% in dollari rispetto a gennaio. Fino a ieri, perché oggi i prezzi delle merci, specie gli alimentari, avranno una nuova impennata.
L’assolo del Sultano (vietato sorridere vista l’aggressività turca in scacchieri a noi vicini, come la Libia) è avvenuto nella grande giornata del festival delle Banche centrali: 18 istituzioni monetarie in tre continenti hanno celebrato tra mercoledì e giovedì l’ultima riunione dell’anno tracciando il quadro del costo del denaro e, di riflesso, del tono dell’economia globale nei mesi che ci attendono, cruciali per la battaglia contro omicron o le eventuali altre varianti del coronavirus. E, fatta salva l’eccezione turca (Erdogan ha licenziato nel 2021 più governatori che Zamparini allenatori), ne è emerso un quadro eccezionalmente coerente nella guerra finanziaria alle conseguenze del virus. Certo, le varie economie si trovano in posizioni diverse rispetto al ciclo, all’intensità dell’epidemia, all’urgenza di rispondere all’emergenza climatica. Ma, pur con tutte le differenze del caso, emerge un fil rouge comune.
La chiusura del 2021 corrisponde un po’ per tutti con la fine della politica del denaro a pioggia senza temere i riflessi sull’inflazione. Al contrario di quanto predicato dalle Banche centrali fino a poche settimane fa, l’inflazione non è un fantasma del passato o un fenomeno transitorio, ma una minaccia reale. Le Banche centrali si sono così adeguate in men che non si dica alla nuova narrazione esposta mercoledì sera dal Presidente della Fed Jerome Powell. D’ora in poi, accanto al fronte della crescita da stimolare, c’è anche quello dell’inflazione da contenere.
La Fed ha così tracciato il piano di battaglia: ritiro degli stimoli entro marzo e nove aumenti dei tassi nei prossimi tre anni per assorbire la liquidità in esubero che sta facendo volare i prezzi delle materie prime, delle case e dei beni rifugio destabilizzando il mercato del lavoro. Alcune Banche centrali, le più sensibili all’andamento dell’energia (vedi Norvegia) o del dollaro (vedi il Messico), hanno addirittura anticipato le mosse della Fed con un primo rialzo. Lo stesso ha fatto la Bank of England, anche se in questo caso la decisione è da leggersi alla luce della crisi della politica anti-pandemia che sta mettendo in ginocchio il pittoresco BoJo.
La Bce, per ora, rimane indietro, avvantaggiata dalla minor pressione sui prezzi nei Paesi della striscia mediterranea. Certo, si manifestano tensioni tra falchi e colombe, ma il conflitto, al di là delle apparenze, è assai meno pesante che in passato. Isabel Schnabel, la voce della Bundesbank all’interno della Bce, è assai meno categorica di quello che fu Jens Weidman (da ieri fuori dalla Bce). La Germania di Scholz è assai più incline a una politica espansiva di quella che fu il Governo di Angela Merkel sotto la pressione di Wolfgang Schauble. Perfino l’Olanda non parla più la lingua del rigore.
Non è una questione solo europea. Il mondo alle prese con la pandemia, frenato dai colli di bottiglia che riducono la produzione e le tensioni geopolitiche (il gas ucraino in testa) che minacciano di esplodere a più latitudini, non può concedersi il lusso di una battaglia all’ultimo quartiere contro l’inflazione. La sensazione è che al primo segnale di difficoltà della crescita, il programma dei rialzi verrà interrotto quale che sia in quel momento il livello dell’inflazione. Anche in Usa: una Fed che da febbraio, con le nuove nomine, sarà ancora più colomba, non esiterà a rinviare i rialzi in caso di bisogno. Come desiderano i Democratici, per ora preoccupati dal prezzo della benzina ma pronti a cambiar rotta se lo imporranno le esigenze del made in Usa. E lo stesso vale per la Bce e la Bank of England. Nel momento in cui Francoforte aumenta per la quinta volta le stime sull’inflazione nel 2022 e le si porta al 3,2% con rischi verso l’alto (un modo delicato per dire che la si stima vicina al 4%) e però si ribadisce che i tassi rimarranno inchiodati a zero, è chiaro che la priorità è la crescita, non l’inflazione.
Questa sensazione spiega almeno in parte perché le Borse hanno reagito con la prevalenza del segno più all’inversione di rotta che comunque c’è stata. E che presto produrrà i suoi effetti in combinazione con l’enorme sforzo che richiederà la transizione energetica. A leggere la cronaca delle varie decisioni delle Banche centrali emerge la sensazione di un non detto, ovvero della preoccupazione per una rotta che andrà definita giorno per giorno, sotto la spada di Damocle di eventi in buona parte imprevedibili.
I signori del denaro, insomma, temono che prima o poi dovranno indossare la corazza per affrontare nuove emergenze. Ma questo non avverrà nel prossimo futuro, dominato da mercati solidi e da aziende ben capitalizzate. E per ora godiamoci il rally di Babbo Natale.
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