In questi giorni lo abbiamo sentito ripetere tante volte: siamo in un’economia di guerra. Ma in un’economia di guerra lavorano tutti. Basti guardare una qualsiasi statistica riferita alla Seconda guerra mondiale: si vedrà che il tasso di disoccupazione è ai minimi storici e il livello di produzione tocca il picco massimo. Oggi, al contrario, siamo o dovremmo essere tutti chiusi in casa. È evidente che non può esserci un prolungato lockdown e che occorre trovare, in tempi rapidi, una soluzione. Si pone dunque il problema di capire come sia possibile ripartire, uscire nuovamente da casa, assicurando al tempo stesso ai lavoratori la massima sicurezza possibile.
Cercherò di proporre una risposta, un abbozzo di risposta, toccando brevemente due aspetti del problema: perché non è possibile restare troppo a lungo chiusi in casa e cosa fare una volta usciti.
Non è possibile restare troppo a lungo chiusi in casa per due ragioni sostanziali. La prima è che le filiere produttive sono fortemente intrecciate. Il Governo ha approvato un decreto in cui, con un grande sforzo, si cerca di separare i beni e le attività essenziali da quelle in questo momento “superflue” o non essenziali. È del tutto evidente che in questo momento le persone hanno bisogno di cibo, farmaci, assistenza ospedaliera e di tutti quei beni e servizi a essi connessi. Ma non è così facile distinguere l’essenziale dal superfluo. Il cibo è essenziale, ma lo sono anche le macchine e gli attrezzi che servono a coltivare la terra e a portare i generi alimentari dalle campagne alle città; l’intera filiera agroalimentare sta in piedi grazie a beni e servizi prodotti in altri settori. Lo stesso vale per il comparto farmaceutico, ospedaliero, dei servizi pubblici e così via. La seconda ragione è che tutti i percettori di redditi variabili – dai liberi professionisti alla povera gente costretta a un lavoro in nero – vedono ridursi o azzerarsi i loro compensi e coloro che si trovano in una condizione di maggiore precariato, soprattutto al sud, presto potrebbero reagire anche con azioni violente.
Dunque, non è possibile tenere troppo a lungo a casa milioni di persone, soprattutto giovani lavoratori. Nella vera economia di guerra scoppiata nel settembre del 1939, i governi assunsero il controllo, assoluto, delle rispettive economie nazionali. Era chiaro ciò di cui (purtroppo) avevano più bisogno: armi e materiale bellico. Ed era chiaro ciò di cui si poteva o doveva fare a meno: beni di comfort. I governi organizzarono l’economia di guerra con ordini e divieti. Nel 1940 Keynes pubblicò un pamphlet intitolato How to pay for the war (come finanziare la guerra) in cui espose un ingegnoso programma per aumentare i consumi bellici e ridurre i consumi civili evitando che potesse esplodere l’inflazione. Il programma ricevette il plauso anche del suo grande rivale, e futuro Premio Nobel per l’Economia, Friedrich von Hayek.
Nei primi anni Quaranta era (purtroppo) chiaro ciò di cui i Paesi avevano prioritariamente bisogno: armi e materiale bellico. E oggi? Abbiamo sicuramente bisogno di cibo, farmaci e assistenza ospedaliera. Ma abbiamo anche bisogno di lavoro e di salute economica. Stiamo combattendo una guerra, è vero. E allora il Governo assuma (temporaneamente) il controllo dell’economia: favorisca il massimo utilizzo dello smart working, imponga condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro e vari un programma straordinario di opere pubbliche. Oltre a cibo e farmaci (e servizi connessi) abbiamo bisogno (da tempo) di ammodernare il Paese: costruire ponti, strade, tratte ferroviarie ad alta (e media) velocità, effettuare la manutenzione di scuole e beni pubblici, costruire la banda larga, sbloccare i cantieri già programmati e finanziati… Nelle opere pubbliche, sempre in condizioni di massima sicurezza, possono trovare un’occupazione tanti giovani, anche al sud. Abbiamo bisogno di un piano straordinario di assistenza domiciliare ai nostri anziani che, questi sì, vanno protetti e lasciati in luoghi sicuri. Facciamolo, coinvolgendo la rete del volontariato e le imprese del terzo settore: è un altro modo, utile, per sostenere l’occupazione.
Il piano straordinario va finanziato in deficit. Già negli anni Cinquanta, prima ancora di Maastricht, Ezio Vanoni, un padre costituente e il ministro della prima riforma fiscale, giustificava il disavanzo pubblico solo per finanziare investimenti produttivi che generassero un reddito futuro superiore agli oneri del debito stesso. Oggi un piano straordinario di opere pubbliche è un investimento che genera ricchezza presente e futura, non è una spesa improduttiva. E smettiamola di alimentare un sentimento antieuropeista. Il presidente della Repubblica ha fatto bene a richiamare l’Europa alle proprie responsabilità storiche e sarebbe sicuramente preferibile finanziare la spesa pubblica straordinaria con l’emissione di eurobond e cioè col risparmio di tutti gli europei. Ma l’Europa c’è e, al di là delle gaffe, si è comunque mossa in aiuto dei Paesi colpiti, a cominciare dall’Italia.
Se oggi non ci sono in Italia medici e mascherine francesi o tedeschi è perché anche quei paesi hanno paura e temono di doverne aver presto bisogno. Forse avrebbero potuto fare qualche gesto simbolico, ma è comprensibile che abbiano paura. Il fatto sostanziale, più importante, è che l’Europa è comunque venuta in aiuto dei paesi colpiti. La sospensione del Patto di stabilità e crescita è un atto di assoluto valore e non era affatto scontato. L’Italia potrà indebitarsi nella misura necessaria. Se invece fosse rimasto in vigore il Patto, avrebbe dovuto infrangere le regole e chissà quale generoso Paese sarebbe stato disposto a prestare denaro all’Italia. Non solo. La Banca centrale europea si è impegnata ad acquistare ingenti somme di debito pubblico. Quindi, non solo l’Europa ci ha autorizzato a indebitarci, ma si è anche impegnata a prestarci il denaro necessario.
Siamo dunque in condizione di poter varare e finanziare un piano straordinario di opere pubbliche per tenere in vita il Paese. Per redigerlo servirà un po’ di tempo, ma il Governo cominci a lavorarci subito in modo da essere pronto a lanciarlo non appena le condizioni sanitarie lo permetteranno.
Sì, siamo in guerra, ma non è una guerra contro altri uomini, anzi, è una guerra che può essere vinta solo con l’unione e la solidarietà tra tutte le nazioni e gli organismi sovranazionali, a cominciare dall’Europa. Come ha detto il Papa: “Nessuno si salva da solo”.