L’Italia come la Grecia? Al lupo, al lupo. Lo si sente ormai da troppo tempo e nessuno ci crede più. Ma se lo dice Standard & Poor’s, la società di rating che in autunno dovrà rivedere la valutazione del debito italiano, allora l’avvertimento diventa davvero pericoloso. C’è chi scrolla le spalle e fa il viso dell’arme preparando un duello all’ultimo sangue contro questi strumenti del vecchio ordine liberale. C’è chi invita a rifiutare ogni giudizio che venga dai “servi del capitale”. E chi si consola con la Bce, la quale continuerà a tenere i tassi d’interesse attorno a zero e si prepara a un nuovo ciclo di Quantitative easing comprando questa volta anche titoli di aziende private. In realtà, c’è davvero poco da cincischiare.
Mario Draghi giovedì scorso ha deluso i mercati i quali si aspettavano che alle parole seguissero i fatti, tutto invece viene rinviato a settembre se non, come è probabile, a Christine Lagarde che si insedia formalmente il primo novembre. In ogni caso, Draghi parlando al simposio di Sintra in Portogallo era stato chiaro: la politica monetaria continuerà a essere lasca, ma la banca centrale ha già fatto molto e non può fare tutto. Adesso tocca soprattutto ai governi evitare che il rallentamento in corso diventi una nuova recessione. È il momento che la politica fiscale prenda in mano la situazione. Come? Con politiche differenziate in una congiuntura economica che mostra grandi divergenze.
Nei pesi del nord Europa la disoccupazione praticamente non esiste più, si va dal 2% al 4% delle forze lavorative, in sostanza una disoccupazione frizionale. All’opposto nei paesi del sud siamo ancora a tassi di disoccupazione a doppia cifra, è così in Grecia e in Spagna, l’Italia è di poco sotto il 10%, va meglio in Portogallo, ma in ogni caso è ancora il doppio della media europea. Non solo. Le finanze pubbliche dei paesi del nord sono a posto, in pratica quasi tutti hanno raggiunto il pareggio del bilancio o ci sono vicini, al contrario di quelli del sud. Il buon senso economico vorrebbe che dal nord venisse una spinta ad allargare la domanda interna per consumi e investimenti, il che potrebbe spingere anche i paesi del sud, soprattutto quelli dove le esportazioni tirano l’economia, come l’Italia, consentendo di risanare le finanze senza “lacrime e sangue”.
Seguiranno questi precetti razionali i governi dell’Unione europea? Purtroppo c’è da dubitarne, il che mette con le spalle al muro Italia, Spagna, Grecia. Ma ci sono vere alternative a questa strategia? Sembra proprio di no. Anche perché la politica monetaria è arrivata al limite delle sue possibilità. Una liquidità abbondante e a buon mercato ha ridotto la pressione a riequilibrare il bilancio pubblico e a ridurre il debito. Il processo di rientro è rallentato grazie a tassi d’interesse vicini a zero se non negativi. Ciò ha consentito a famiglie e imprese di prendere a prestito indebitandosi con oneri oggi molto bassi, ma un costo del denaro vicino a zero indebolisce le banche riducendo al minimo i loro utili, il che significa che per non rischiare troppo debbono contrarre i crediti e accelerare la loro ristrutturazione.
E proprio dalle banche oggi in Europa può venire una nuova ondata di instabilità. La Bce ha acquistato titoli per circa 2 mila e 600 miliardi di euro dal 2015 al 2018, non potrà riempirsi ancora la pancia senza mettere a rischio il suo bilancio. È vero che può sempre stampare moneta, ma ha dei limiti determinati dalle conseguenze sul mercato dei capitali e dagli effetti collaterali sull’economia reale.
Se la politica fiscale diventa il vero centro del dilemma per un’Europa che cresce poco, è chiaro che la pressione su paesi come l’Italia che hanno ancora finanze pubbliche squilibrate sarà fortissima. Lo scontro tra Matteo Salvini e Giovanni Tria ne è la prima avvisaglia. Sembrerebbe il solito gioco del poliziotto buono e di quello cattivo con il ministro dell’Economia che lesina e il capo della Lega che largheggia. Nel mezzo c’è il presidente della Repubblica, il quale invita a rispettare le compatibilità che sono interne all’Italia prima ancora che europee, come ha avvertito ancora una volta la settimana scorsa Sergio Mattarella, lasciando capire che se il Governo cadrà nascerà un esecutivo di transizione per fare la Legge di bilancio e preparare con calma le prossime elezioni.
Questo gioco delle parti rischia di essere un dramma pirandelliano dove i personaggi diventano maschere vuote. Che cosa vuole la Lega, per esempio, non è chiaro. Vuole elezioni subito e per questo s’impunta sulla flat tax? Ma quale flat tax? Se costa 10 miliardi di euro come dice adesso Salvini non può non essere una variante minore. Prima ha promesso la tassa piatta, 15% per tutti, poi ha detto che si trattava di due aliquote o forse tre, più basse di quelle attuali. Intendeva le aliquote marginali o legali, perché le cose cambiano se prendiamo le aliquote medie effettive, che si calcolano dopo aver tenuto conto di deduzioni e detrazioni. E qui viene l’ultima versione delle tasse leghiste: il 15% sotto un certo livello di reddito imponibile, per esempio i 50 mila euro lordi annui, con la possibilità di scegliere se pagare una sorta di cedolare secca rinunciando a deduzioni e detrazioni o se continuare come adesso. Perché nel frattempo si è scoperto che i contribuenti sotto i 50 mila euro, tenendo conto di detrazioni e deduzioni, versano già un’aliquota media effettiva inferiore al 15% del reddito dichiarato.
La tassa piatta facoltativa rischia di diventare un flop come quota 100 per le pensioni e il reddito di cittadinanza. Soprattutto non verrebbe ridotta la pressione fiscale sul reddito che rappresenta, invece, la vera variabile importante per rilanciare la crescita. Insomma, un bel ginepraio. Non è solo questione di risorse che non ci sono, di coperta corta, di parametri europei da rispettare o no (tutto questo c’è sullo sfondo ed è molto importante sia chiaro), perché innanzitutto occorre sapere che cosa intende fare davvero Salvini oltre a recitar la parte di Rodomonte.