Un rinvio è solo un rinvio, e in sé non prelude a un bel niente. Ma la decisione, annunciata venerdì sera tardi da Moody’s, di rinviare l’esame dell’Italia, cioè del “merito di credito” dei nostri Btp, del nostro debito sovrano, non va presa alla leggera. Denota quanto la nostra economia – ma in realtà tutta l’economia europea, sia pure con differenze nazionali – dipenda strettamente dall’esito della guerra in atto in Ucraina. E da altro: l’instabilità politica nazionale.
Per ora, si sa, il giudizio dell’importante agenzia di rating sul nostro debito pubblico è di “Baa3” – non molto lusinghiero, dunque – e tale resta ancora per un po’ (Moody’s non ha specificato quando pubblicherà il nuovo rating) ma con outlook stabile, cioè senza prospettive di peggioramento a breve termine. Il vero tema sotteso a questa scelta è che l’Italia, per la tensione congiunta dell’inflazione dei prezzi dell’energia e di molte materie prime, mista al rischio di stagflazione, sta offrendo il fianco alla crisi globale in modo meno protetto di molti competitor. La crescita nell’ordine del 6,5% registrata dal nostro Pil l’anno scorso ha ridotto dall’atteso 159% al 155% circa il rapporto del debito pubblico sul Pil, ma la frenata brusca che da dicembre sta vivendo la nostra produzione industriale e in genere la nostra economia minacciano di compromettere la prosecuzione di questo movimento di recupero che è fondamentale per la stabilità della nostra economia.
E non basta. L’atlantismo connaturato alla nostra storia, ma in questa fase addirittura declamatorio manifestato dal governo Draghi e dal suo presidente – che molti ambienti considerano candidato a succedere all’attuale segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, in scadenza il 30 settembre di quest’anno -, comporterà l’aggravio delle spese militari inutilmente e confusamente contrastato dai Cinquestelle. Il clamoroso ritardo nell’installazione delle infrastrutture per le energie rinnovabili in cui naviga pigramente il Paese non fa sperare bene sul fronte della diversificazione energetica, unica fonte reale di un possibile calmiere dei prezzi. La necessità di sostenere i settori devastati dal caro-energia con sussidi rischia di aggravare i conti del welfare. E intanto i morsi della pandemia, per niente cessati, con circa 150 vittime e 70 mila contagi quotidiani, non fanno ben sperare sull’andamento autunnale, sempre ammesso e non concesso che anche la variante Omicron in circolazione si riveli sensibile al caldo e declini con l’avanzare della bella stagione: un altro fronte di spesa pubblica.
D’altronde, le attese di crescita del Pil per quest’anno, formalmente ridotte al 4,1% dalla Commissione europea agli inizi di febbraio, ai primi di marzo sono state ridotte dall’Istat al 2,3% ma ci sono analisti – tra cui un economista di solito attento a cogliere anche i segnali positivi che arrivano dall’economia reale come Marco Fortis -, che considerano un successo se il Pil crescerà dell’1%.
In un simile quadro, i guru di Moody’s, pur chiusi nella loro torre d’avorio newyorkese, sanno che l’instabilità politica italiana che cova sotto la cenere è fortissima.
Le scaramucce degli ultimi giorni tra Cinquestelle e Premier sulle spese militari e comunque in questa fase tutti gli strappi e strappetti dei grillini oggi e dei leghisti domani sono ancora destinati a rientrare; ma le elezioni amministrative, una tornata ormai fissata per il 12 giugno prossimo, destabilizzeranno i rapporti tra i partiti e la prospettiva del voto politico previsto entro il marzo del ’23 obbligherà gli stessi partiti a dar vita alle (anzi ad accentuare le) logoranti pretattiche delle accuse incrociate che renderanno irrespirabile l’aria all’interno della maggioranza. Tanto che, essendo il 30 settembre la data di svolta per il conseguimento del diritto al vitalizio degli attuali parlamentari – insomma, la data dopo la quale se si sciolgono le Camere, gli uscenti comunque hanno diritto alla pensione -, una corrente di pensiero che sta consolidandosi a Roma immagina la possibilità che si vada a elezioni anticipate in autunno, liberando così Draghi da palazzo Chigi e permettendogli di volare alla Nato e accorciando l’agonia politica di una compagine di larghe intese che ha fatto il suo tempo e non è più d’accordo su niente, salvo il generico impegno per la lotta alla pandemia e il sostegno alla linea europea contro la guerra. Un po’ poco per un Paese come il nostro, strutturalmente precario nella finanza pubblica e zoppicante nella ripresa economica.
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