La Banca centrale europea, la Banca europea degli investimenti, la Commissione di Bruxelles, tutti intonano la stessa melodia: la ripresa è forte, più del previsto, l’economia dell’Unione ha colmato il fossato aperto dalla pandemia e viaggia a ritmi elevati anche quest’anno. L’Italia in particolare corre più degli altri; anche se con il 6,5% del 2021 non ha ancora recuperato il crollo del 9% nel 2020, di questo passo lo farà prima dell’estate. È vero che negli ultimi mesi – complici la variante omicron, la mini-crisi del gas e le difficoltà di un’offerta che non riesce a tener dietro all’impetuoso balzo della domanda internazionale – si è visto un certo rallentamento, tuttavia l’ottimismo regna sovrano. E questo è un bene, la psicologia è una componente fondamentale dell’economia, lo avevano già detto i classici e adesso fa parte integrante del nuovo paradigma teorico. Il paradosso è che una congiuntura tanto vivace può diventare un problema. In che senso?



Lo ha già segnalato la Federal Reserve, la banca centrale americana: la produzione tira, l’occupazione aumenta, crescono i salari e i consumi, sale l’inflazione (è arrivata al 7% negli Stati Uniti). Quindi, la politica monetaria deve cambiare prima che sia troppo tardi. Si comincia riducendo e poi interrompendo l’acquisto di titoli sul mercato, poi si passa a un aumento dei tassi d’interesse. Tutto ciò per raffreddare la febbre dei prezzi e per allineare la dinamica della moneta a quella della produzione, evitando che l’eccesso di liquidità gonfi una bolla destinata a esplodere. Il pericolo, insomma, è che si creino le condizioni di una nuova crisi finanziaria come quella del 2008. La situazione è diversa, allora la congiuntura mondiale era in discesa e oggi ci sono maggiori strumenti per evitare gli eccessi. Tuttavia, la storia dimostra che le crisi non sono prevedibili, né, per lo più, evitabili: una volta che la palla di neve scivola a valle si può tutt’al più ridurne la velocità.



In Europa non siamo arrivati a questo punto, l’inflazione cresce, ma a ritmi più moderati, ciò vale anche per salari e consumi. La Bce è gonfia di titoli di stato e mantiene il costo ufficiale del denaro al di sotto dello zero, una situazione innaturale se non paradossale dal punto di vista teorico e pratico. Non può durare. Da molte parti, dunque, aumenta la pressione per un “ritorno alla normalità” nella politica monetaria senza per questo danneggiare l’economia reale. È quel che sostiene la “scuola germanica”, lo ha detto recentemente Otmar Issing uno degli economisti più ascoltati e la pensa così Joachim Nagel, il presidente della Bundesbank che ha sostituito a dicembre Jens Weidmann, “una scelta all’insegna della continuità”, come ha detto Christian Lindner, il ministro delle Finanze liberale. Christine Lagarde prende tempo, però l’argomento tedesco sembra molto ragionevole: meglio muoversi per tempo e procedere passo dopo passo, invece di rischiare una brusca svolta che avrebbe, questa sì, un impatto negativo sulle aspettative e sulla stessa crescita. Dunque, la svolta è nelle cose, si tratta solo di capire come e quando.



È uno scenario nient’affatto positivo per l’Italia e il rimbalzo dello spread tra il Btp decennale e il Bund a dieci anni tedesco, arrivato a 150 punti base (1,5%), fa da semaforo giallo. L’industria tira l’intero Pil soprattutto grazie alle esportazioni, ma anche la domanda interna si è mossa. Tuttavia, la ripresa è appesantita da un debito peggiorato di venti punti di Pil in due anni (quest’anno dovrebbe fermarsi a quota 150%). Se la crescita continua robusta fino al 2023, il rapporto con il prodotto lordo può cominciare a scendere. Ma è una funzione aritmetica, per quanto importante come la lancetta di un manometro. Il debito in quantità continua a gonfiarsi e il Tesoro deve collocare un numero sempre maggiore di titoli, se la Bce smetterà di comprarli, dovrà fare i conti con il mercato il quale chiederà tassi più elevati per compensare il maggior rischio. Dunque, il costo è destinato a peggiorare anche a prescindere da quel che deciderà la banca centrale sui tassi di riferimento. È per questo che l’Italia, nonostante la sua spettacolare performance, per le agenzie di rating resta ancora a quota tre B, cioè poco più su del livello di guardia. 

Il peso del debito pubblico si accompagna al giudizio negativo sulla qualità della spesa, sulla sua efficienza, sui tempi di esecuzione, il che getta un’ombra sulla realizzabilità degli investimenti finanziati dall’Ue. Il Pnrr è ancora sulla carta, i cantieri debbono partire e quest’anno sarà decisivo per capire se l’Italia riuscirà a mantenere gli impegni, quindi a ottenere i finanziamenti previsti. C’è nell’aria, resa mefitica dalle querelle sul Quirinale, il profumo dei soldi, tuttavia non arriverà più un euro se non passeremo al più presto dalle parole (per ora tante, persino troppe) ai fatti (finora pochi). Possiamo chiamarli austeri, frugali, avari, ma i contribuenti dei Paesi che debbono finanziare l’Italia vogliono risultati. Pagare moneta, vedere cammello, come si usa dire. 

L’incertezza politica, le divisioni tra i partiti che reggono il Governo, la difficoltà di individuare un candidato bipartisan per la presidenza della Repubblica, il rischio che cada il Governo e quest’anno trascorra in baruffe pre-elettorali, le incognite sul futuro di Mario Draghi, tutto questo fa cadere un fitto banco di nebbia che impedisce di vedere sia la moneta, sia il cammello. Speriamo che di qui a una settimana scompaia tutta questa caligine. 

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