La bomba nucleare del coronavirus ha perlomeno messo in luce un aspetto da troppo tempo relegato in ultimo piano, così lontano che nessuno più ci faceva più caso e forse per qualcuno addirittura inesistente: le cose che si dicono si devono anche fare.
È vero che le nostre nonne ci ammonivano, ancora bambini, che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Ma per metterci in guardia sulla necessità di attraversarlo quel mare e dunque invitandoci a essere coerenti, convinti e attrezzati a compiere l’opera. Col tempo il mare si è fatto oceano. E tra le cose dette e quelle fatte la distanza si è allargata così tanto che quasi più nessuno si è preoccupato di colmarla. Con l’aggravante che è cresciuta a dismisura la voluttà del dire e si è completamente annientata l’attitudine del fare. Fino a giungere al limite estremo in cui il dire si sostituisce definitivamente al fare, tanto che non c’è più bisogno di realizzare alcunché: chi dice non ha alcuna idea di come fare (a questo punto non ne ha bisogno) e chi ascolta tutto si aspetta tranne i fatti.
La realtà si fa virtuale. E in un ambiente del genere è perfettamente logico che uno valga uno. Se tutto lo sforzo consiste nell’indicare obiettivi tanto suggestivi quanto irraggiungibili, tanto vale spararla grossa e promettere di abolire la povertà e rendere tutti più felici.
In un mondo in cui svetta tra tutte l’arte di arrangiarsi, con una buona fetta del debito pubblico che va a coprire le più disparate forme di welfare – una per ciascun individuo che si costruisce la sua come meglio crede e riesce -, tutto è possibile e tutto è perdonato.
Ma se il contesto cambia cambiano pure le condizioni e le prospettive. Il morbo assassino, mettendoci di fronte alle nostre incapacità e fragilità, ci ha fatto capire che non bastano le parole a contrastare una vera emergenza e occorre invece fare ricorso a serietà e competenza.
Fine dei giochi. Il pubblico si è fatto più esigente. Cresce la domanda di buon governo e l’offerta politica non può fare altro che adeguarsi se non vuole perdere aderenza sul mercato delle preferenze e ritrovarsi all’improvviso senza più clienti da servire (o di cui servirsi). Cade l’alibi dell’Europa brutta e cattiva, origine di tutti i nostri mali, nonostante l’impegno che l’Unione mette nel suscitare diffidenza. Bruxelles, Berlino e Parigi corrono ai ripari con una proposta forte e condivisibile di contrasto al male e rilancio dell’economia.
Gli Stati generali convocati dal Premier per prendere tempo e misure rispetto al nuovo quadro di opportunità devono necessariamente produrre idee e azioni compatibili con la gravità del momento superando l’impaccio verboso del vorrei ma non posso.
Indietro non si torna. Ora l’opinione pubblica è sufficientemente avvertita. Ha seguito con trepidazione conferenze stampa e decisioni sottostanti. E, soprattutto, ha cominciato a valutarne credibilità ed efficacia sulla propria pelle di imprese, famiglie e cittadini.
I partner commerciali e le istituzioni internazionali ci tengono d’occhio, i corpi intermedi dello Stato incalzano il potere esecutivo, fallimenti diffusi e disoccupazione di massa si stagliano all’orizzonte dell’autunno. Le pezze a colori si mostrano per quello che sono.